Corona chronicles 8

Corona Chronicles 03-17/05

Inizia la fase due: da domani con pazienza e contingentati potrete tornare in ospedale, per fare un check up, non l’hanno bombardato, si aspetta, ma c’è. Pensateci, non è scontato.
(U., Italy, 3/05/2020)

Innanzitutto, scusate per l’attesa.
Siamo entrati da due settimane in “fase due” e pure sto blog ha deciso di adattarsi, con una pubblicazione bisettimanale. Questo è motivato dal fatto che, francamente, non sto vivendo tantissimo e quindi fatico ad accumulare le cose da dire.

Parte del problema, per quanto sembrerà assurdo, è anche il fatto che qui in Germania (specialmente a Berlino) non ci sia stata una “fase 1”: le restrizioni sono state modificate più volte, allentate, ristrette, ma sempre abbastanza sottovoce. Inoltre, volendo, avremmo potuto incontrarci, fare “vita sociale” mantenendo le distanze. Difficile quindi distinguere un prima da un dopo. Sì, i barbieri hanno riaperto, ma la gente è sempre andata in giro. Io stesso ero andato in ufficio per una settimana dopo che ci avevano invitati a rimanere tutti a casa.
Qui non c’è una “data di scadenza”, non c’è una data per il “liberi tutti”; sì, in teoria a giugno finisce il social distancing: vedremo cosa dice il RKI a riguardo. Io non ci spero troppo.

Questo mi porta all’altro problema che mi tormenta, ossia il non sapere quando potrò tornare (in visita) a casa. Quando potrò riabbracciare la mia famiglia? Quando rivedrò gli amici? Ho già passato lunghi periodi all’estero, non è quello a spaventarmi, è la palese mancanza di possibilità di scelta. Di nuovo torniamo al caffè senza panna: sapendo di poter tornare a casa in qualsiasi momento, me ne sarei rimasto qui tutti questi mesi senza batter ciglio; ora che non so quando potrò tornare (in sicurezza), la cosa mi sembra insopportabile.

Vi ricordate quando dicevo che chi sosteneva che ne saremmo usciti persone migliori si drogava? Ecco, il rientro di Silvia Romano ha spazzato via in gran parte tale illusione.
Non che mi aspettassi molto, ma il coro della destra* e di parte della sinistra si è prodigato in un concerto affatto simpatico sulla vicenda: abbiamo pagato troppo, abbiamo pagato i terroristi, è un’ingrata che si è convertita, è una martire che si è convertita, è sì una vittima ma anche un po’ una traditrice perché ora è islamica/sposata/incinta e così via.
(*qualche furbone potrebbe saltarsene fuori con la solta vecchia storia che destra e sinistra non esistono, ma stranamente certe critiche sono arrivate da certi personaggi e giornali che – sorprendentemente – fanno tutti riferimento a certe idee e aree. Inaspettato, vero?)
Ora io non entro nel merito perché non conosco la situazione: non collaboro con l’AISE, non sono un esperto di diplomazia internazionale o di negoziazione (anzi), non faccio parte del team di debriefing, non sono mai stato rapito, NON SONO SILVIA ROMANO.
Disclaimer: so benissimo che ha cambiato nome e pertanto dovrei chiamarla Aisha, come da sua decisione. Il motivo per cui persisto nel chiamarla Silvia è per non creare inutile confusione a qualche lettore. Scusa, Aisha.
Vorrei soltanto scrivere una nota a piè di pagina con alcune riflessioni fatte durante le mie chiacchierate con U.:
– parte del problema è che persiste un atteggiamento orientalista che impedisce di comprendere la complessità degli scenari che SR ha dovuto attraversare: chi è al-shabaab? Che tipo di Islam pratica? Come si differenzia da al-qaeda, al-nusra, daesh e compagnia brutta? Tutte domande che potrebbe essere interessante porsi, anziché berciare sulla sua conversione;
– il dibattito sulla conversione mette in luce alcuni problemi abbastanza grossi che non riusciamo a risolvere in Italia: uno è il predominio semiassoluto del Cattolicesimo; il secondo è il patriarcato, ancora diffusissimo a livello inconscio anche nel campo progressista;
– infine c’è stata la gestione mediatica della vicenda e il ruolo della vittima sotto i riflettori.
Se sul punto uno c’è poco da dibattere, dal momento che il pubblico italiano è mediamente molto ignorante quando si parla di Islam e tratta la geopolitica come se fosse una partita di campionato, i due punti seguenti sono molto più interessanti.
Prendiamo le accuse in merito alla conversione: da una parte le si rinfaccia di aver abbandonato il cattolicesimo, assurto in questo caso a unica opzione possibile in Italia, ignorando la presunta laicità dell’identità italiana in favore di una visione conservatrice, retriva e limitante dell’appartenenza nazionale: italiano è chi è bianco e cattolico, apparentemente. Un ritornello sicuramente non nuovo, ma sempre schifoso, specialmente nel 2020. Dall’altra parte, le si rinfaccia di aver abbracciato una religione che opprime le donne. Ecco, questo è il dato più interessante, dal momento che arriva dal campo che sventola la libertà di scelta come propria bandiera. L’islam è una scelta legittima per gli altri, non per noi che abbiamo combattuto per i nostri diritti. Io sono il primo ad ammettere che l’islam abbia dei grossi problemi per quanto riguarda l’autonomia delle donne – nonostante la situazione sia più sfumata di quanto non si voglia ammettere. Però qui si tratta piuttosto di nuovo di un tentativo di incasellare l’identità di Silvia, stavolta da sinistra: sei donna, non puoi schierarti con loro. In ogni caso, la tua autonomia sparisce, come donna, rappresenti tutte le donne, pertanto non puoi fare certe scelte. Questo è ciò che avviene quando il sessismo viene interiorizzato: si presenta un’imposizione come scelta di libertà – analogamente a quanto succede con il fatshaming.

Infine, è evidente che la situazione è stata gestita malissimo: si sarebbe dovuto aspettare, dare un po’ di respiro a Silvia e alla sua famiglia, far sapere con tranquillità che era stata liberata e che era sana e salva, invece di fare le foto in aeroporto e montare tutto il circo mediatico cui abbiamo assistito.
Invece, facendo così – e pubblicando tutte le illazioni, le dichiarazioni e le supposizioni in merito alla vicenda – Silvia è stata data in pasto al pubblico senza pietà. Pubblico che, poco sorprendentemente, si è accanito con grande ferocia su ogni singolo dettaglio: il velo, la conversione, l’abito (per le ragioni di cui sopra) e dulcis in fundo il suo sorriso. Perché in fondo la grande colpa di Silvia è quella di essere giovane, donna e sorridente. Non è decoroso per una vittima donna: dovrebbe essere traumatizzata, raccontare di indicibili torture e soprattutto ringraziare, ringraziare finché campa. Meglio ancora sarebbe stato se fosse stata una martire, ma non si può avere tutto, vero? E quindi guardatela, sorride, la stronza. È contenta, st’ingrata. Chissà come se l’è spassata, dopo essersela cercata.
Perché questa gente si trova ad odiarla così fortemente? Perché non è un uomo. Non ha il diritto di passare per un’esperienza terribile e uscirne con un sorriso di gioia (vorrei vedere voi all’idea di poter riabbracciare la vostra famiglia dopo 18 mesi come reagireste); doveva uscirne macilenta e distrutta, così avremmo davvero potuto darci una pacca sulla spalla e dirci di averla salvata per davvero. Una donna non ha il diritto di essere indipendente, autonoma e forte. Neanche se si tratta di sorridere ai fotografi, visto che in realtà nessuno di noi sa cos’abbia vissuto nel corso di quei mesi. Le donne sono fragili fiorellini da proteggere, madri, sante, vergini; di sicuro non decidono giovani di andarsene in un altro continente a far del bene.

Quando ci libereremo di tutto questo sarà sempre sempre troppo tardi.
(U.T., Berlin, 17/05/2020)

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