Vicenza impossibile

Queste piccole città venete, dunque, senza importanza, sorte a mezza strada tra il mare
e i granducati dell’interno, chiuse da campi e colline dove la nebbia bassa e di un colore stinto confonde e intorbida paesaggi e pensieri, vivono di una vita propria,
ai margini della storia degli uomini e del Paese.


Goffredo Parise, Il prete bello (1954)

“Dopo la giornata di mobilitazione del 6 ottobre, [il] pomeriggio [di] sabato 7 ottobre il Coordinamento studentesco e Fridays for Future Vicenza hanno occupato lo stabile dell’ex caserma della Guardia di Finanza in contra’ Mure della Rocchetta, in centro storico, di proprietà comunale e in stato di abbandono da decenni” (Vez News, 7/10/2023), dove si è svolta una serata di musica e festa piuttosto ben riuscita prima che l’occupazione fosse sgomberata, a mezzanotte. Un’idea abbastanza coraggiosa per una città come Vicenza, non particolarmente nota per occupazioni e scontri ma nella quale uno zoccolo duro abbastanza tenace resiste da decenni a continue delusioni.

Vez News

Un atto che però ha avuto il difetto di non dare il via ad un’azione più ampia e programmata, ma di essere una piccola provocazione iniziata e terminata nel giro di 12 ore senza lasciare tracce. È probabile che questo gesto non avrà la risonanza sufficiente ad accelerare davvero i processi di ristrutturazione della ex caserma o di qualsiasi altro edificio vicentino abbandonato. Infatti, nonostante molti di essi – tra cui l’ex guardia di finanza – abbiano già da quasi un anno ottenuto i fondi per attuare dei progetti di recupero (soprattutto case popolari), in nessuno dei siti si è visto il minimo segno di rinnovamento.

Eppure la questione della speculazione edilizia e del consumo di suolo a Vicenza è molto urgente: in media, dal 2019 ad oggi, è stato costruito da zero un nuovo supermercato all’anno (di cui uno, il Famila di via Torino, è già chiuso dopo solo due anni di attività) e ovunque, in città e nei paesi limitrofi, si vedono costruire complessi residenziali nuovi di zecca che restano poi sfitti per anni. Per non parlare di ecomostri come il complesso di Borgo Berga, la base militare statunitense Dal Din e il treno ad alta velocità, per i quali Vicenza è quasi stata esclusa dal patrimonio Unesco, oltre a subire tutti i rischi, in primis quelli idrogeologici, legati alla cementificazione.

I vecchi edifici da rivalorizzare vengono invece ignorati, se non a parole, sicuramente nei fatti. Parlo, oltre che dell’ex guardia di finanza, del vecchio macello di Vicenza, in origine un palazzo palladiano ma, dopo numerosi abbandoni e ristrutturazioni, ormai completamente irrecuperabile (il Giornale di Vicenza nel 1959 già lo dichiarava un problema “urgente”). Marcisce da decenni appeso a impalcature storte e l’insegna pubblicitaria dello studio fotografico Vajenti, rosso squillante, è l’unico elemento che impedisce all’occhio di abituarsi a quei muri informi che, di fatto, per noi sono là da sempre. E che ci ricorda che il rudere è ancora lì, tra i due fiumi, accanto alla piazza dedicata a Matteotti e a un minuto da Palazzo Chiericati, dove fino a pochi anni fa – fino, cioè, all’ordinanza “anti degrado” del novembre 2018 dell’allora sindaco Francesco Rucco – giovani e adolescenti si sedevano ogni pomeriggio, a gruppetti, sui gradini e tra le colonne per chiacchierare e stare insieme. Quel rosso ci segnala il potenziale sprecato di spazi che, in un punto così centrale e bello della città (di fronte, al di là del fiume e del ponte di ferro, si vede la bianca Villa Piovene, restaurata di recente), potrebbero diventare luoghi di aggregazione e di cultura, sullo stile del Faber Box di Schio, o ospitare una nuova biblioteca, dato che i locali di quella storica cadono a pezzi.

Giornale di Vicenza, 1959

Le idee non mancherebbero per rianimare Vicenza, che ormai sembra tornare in vita – brevissimamente e affannosamente – solo nei pomeriggi del fine settimana, galvanizzata da gente che la affolla per aperitivi sovraprezzati e acquisti convulsi, per poi cadere nel silenzio più totale la sera dopo le nove, perfino di sabato.

Guardando dentro le finestre senza vetri dell’ex mattatoio e attraverso il soffitto sfondato del piano terra, vedo il vano di una porta che dà, ora, sul vuoto e su un cumulo irriconoscibile di mobili e spazzatura. Accanto c’è un termosifone, ancora appeso al muro, sotto un tetto che non c’è quasi più. Riesco ad immaginare le persone che hanno percorso quei corridoi e abbassato la maniglia della porta, per entrare in un ufficio adesso completamente scomparso; e guardando gli infissi datati e quello che resta dell’arredo penso a Budapest, dove palazzi e fabbriche abbandonati si sono trasformati in pub e discoteche, spesso mantenendo e rivisitando in modo creativo parte degli interni originari (non è raro vedere piastrelle marroni di una cucina anni ‘60 su un muro rosa fluo, con un maiale stroboscopico appeso al soffitto). Se l’ex macello fosse stato recuperato in tempo, forse oggi quel termosifone sarebbe dipinto di rosso e ascolterebbe la techno ogni sabato notte. Invece il progetto prevede, in una delle città più inquinate d’Italia e in una zona che andrebbe sgravata dal traffico, ovviamente un parcheggio.

Per il momento, comunque, nulla sembra muoversi a parte l’intonaco dei muri e le travi dei soffitti. Come nei vecchi cinema del centro (Corso, Arlecchino, Roma e Palladio), anch’essi in stato di completo abbandono da anni o decenni e per i quali sarebbe bello in futuro vedere qualcosa di diverso da negozi o grandi magazzini di lusso, soluzione che è stata scelta invece per il cinema Italia in Piazza delle Poste a Vicenza o nel teatro Italia di Cannaregio, a Venezia.

Il cinema Corso, forse in parte grazie alla sua posizione molto centrale è apparentemente uno degli edifici abbandonati rimasti più intatti. Attraverso i vetri oscurati delle porte non si vede nulla; sul marciapiedi e sulle colonne, stencil di farfalle nere segnalano i catenacci alle maniglie; le statue della facciata sono ancora tutte intere. Ma mute.

Nei locali dell’Arlecchino, nell’ultimo decennio si è tentato di installare delle aule universitarie, ma sono durate poco. Ci sono ancora lo stemma dell’università di Padova, banchi e poltrone, ma catene e sbarramenti a impedire persino che qualcuno ci si possa riparare per qualche ora la notte.

La struttura in cui si inserisce il cinema è l’edificio anni quaranta della vecchia fiera, che si affaccia sul Giardino Salvi direttamente sulla roggia Seriola (per la salute della quale non si è ancora steso un progetto idrico davvero efficace) e si incastra tra la Loggia Longhena e la Loggia Valmarana, di cui riprende il motivo a colonne in un’eco che resta moderna a distanza di settant’anni. Il progetto di ristrutturazione sembra prevedere un auditorium dentro al cinema e uno spazio espositivo all’interno dell’ex fiera, per il quale qualche anno fa è stato coinvolto anche lo IUAV (progetto VIsioni in corso d’opera).

Nel Giardino Salvi, dal 2016 al 2018 si sono svolte alcune edizioni piuttosto ben riuscite del Lumen Festival, con concerti e street-food; nonostante gli spazi del parco fossero piuttosto limitati, non si è tentato di cavalcare il successo dell’iniziativa per dare una spinta alla ristrutturazione dell’edificio della fiera che invece, per via dei suoi ampi spazi interni e per i suoi esterni particolari, oltre che ben conservati, si presterebbe molto bene ad ospitare grossi gruppi di persone per eventi musicali di quel genere. Non essendo ancora fatiscente né pericolante, probabilmente in una città meno rigida e miope l’ex fiera si sarebbe potuta prestare ad una sorta di “occupazione controllata” a lungo termine come quella del quartiere di Metelkova a Lubiana, un coloratissimo esempio di autogestione creativa in una città relativamente piccola.

Oltre a questi già numerosi edifici abbandonati, nelle immediate vicinanze della spiaggetta sul Bacchiglione, diventata negli ultimi anni un luogo di ritrovo estivo piuttosto fighetto (divanetti bianchi, palme, spritz a 5 euro), e del frequentatissimo park Fogazzaro, c’è il vecchio carcere di San Biagio chiuso dal 1986. Lì durante la guerra furono imprigionati e torturati numerosi partigiani; a ricordarlo nel 2020 è stata posta una lapide commemorativa (in cui però si sente la mancanza della parola “partigiani”), ma al di là di questo, nonostante esistano delle associazioni interessate al luogo e delle proposte di convertirlo in un museo sulla storia dell’edificio, non si mette in moto nessuna discussione, né men che meno un progetto. Con una storia così densa e soffocante che ti fissa da dietro le sbarre delle finestre nere, si fa fatica a pensarlo un potenziale luogo di svago; ma invece di sollevare la questione, chiunque passi di lì ogni giorno decide di lasciarsi fissare, anziché cercare di cambiare le cose.

Così, in un pomeriggio, attraverso l’obiettivo della macchina fotografica ho percorso con l’immaginazione una Vicenza impossibile. Cosmopolita, in rinnovamento, attenta all’ambiente e fiera del suo passato e del suo patrimonio artistico.

E che esiste solo nella fantasia. Nella realtà, come ci raccontano gli scrittori che ci sono nati, è da sempre un posto in cui la nebbia offusca i colori e rallenta la storia – e può darsi che ci piaccia anche così.

Soledad

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