No surprises


English below – this post has benefitted from the proofreading by Emilia and Deekshitha for IT and EN respectively. Any typos/errors/issues in grammar and syntax are only mine.
Inglese sotto. Questo post è stato rivisto da Emilia e Deekshitha rispettivamente per la versione IT e EN. Qualsiasi refuso/errore/problema sintattico-grammaticale è solo colpa mia.

Questo pezzo è dedicato a tutti i miei contatti che hanno accolto il veto statunitense alla risoluzione ONU per il cessate il fuoco nella Striscia di Gaza con sgomento e delusione: capisco i vostri sentimenti e li condivido in parte, ma per quanto mi deprima, la notizia non mi ha minimamente colto di sorpresa. Da sempre la propaganda sui valori americani (libertà, giustizia, uguaglianza) e le azioni sul campo dell’imperialismo USA sono in contraddizione. Il conflitto israelo-palestinese non solo non è un’eccezione, ma anzi ne rappresenta un’ulteriore conferma.

Per prima cosa è fondamentale riconoscere l’esistenza di una complessa relazione clientelare tra Israele e USA: gli USA sostengono militarmente e finanziariamente Israele, Israele garantisce una presenza regionale con un potere deterrente non indifferente – permettendo al complesso industriale-militare statunitense di concentrare la propria presenza fisica su altri fronti.
Proprio alla luce di questo, non mi stupisce minimamente che gli USA abbiano votato (ora) come hanno votato: uno dei loro motti più famosi, d’altronde, è “il cliente ha sempre ragione”. Anche tralasciando lo scivoloso discorso sull’attività lobbistica israeliana negli Stati Uniti, gli USA tendono ad abbandonare i loro alleati con enorme riluttanza, specialmente quando i loro interessi sono ancora allineati. Questo spiega la ritrosia dell’establishment nel condannare la condotta militare israeliana, mentre sul campo ucraino avevano immediatamente sostenuto le accuse di violazioni dei diritti umani da parte della Russia; la questione non è nel merito delle accuse, fondate o meno, bensì nella volontà politica di dare seguito a tali accuse.

C’è un ulteriore aspetto da tenere in considerazione nella scelta di non sostenere le richieste di cessate il fuoco: Israele, ad oggi, non ha conseguito alcun grande “successo” militare rispetto agli obbiettivi dichiarati all’inizio della campagna. Le centrali operative di Hamas non sono state smantellate, la resistenza palestinese continua ad operare attraverso le varie fazioni (riunite nella Joint Operations Room), Hezbollah rimane una minaccia sul confine nord nonostante il silenzio iraniano. L’unico risultato ottenuto è stato quello di provocare un altissimo numero di morti civili ed attirare le critiche di molti paesi e istituzioni internazionali. Le opinioni pubbliche dei paesi alleati di Israele sono sempre più scollate dai propri politici e meno facilmente ricattabili, la solidarietà con la Palestina si dimostra duratura persino in paesi in cui le condizioni per esprimerla pubblicamente sono più complicate (vv. Germania).
Non esattamente un successo di cui vantarsi, insomma.

L’obbiettivo dichiarato di “distruggere Hamas”, inoltre, rende difficile smarcarsi e rende impossibile ottenere un cessate il fuoco da parte israelo-statunitense: qualsiasi cessate il fuoco (così com’è stato per la breve tregua) richiede di negoziare proprio con il nemico “esistenziale” e qualsiasi risultato diverso dall’annientamento del gruppo politico/militare a Gaza verrebbe interpretato come un fallimento. Anche per questo, in assenza di un risultato “eccellente” che permetta ai due alleati di “salvare la faccia” è impensabile che venga richiesta una nuova pausa nei combattimenti. La mancanza di un piano per gestire la Striscia di Gaza una volta terminato il conflitto contribuisce a creare confusione e a costringere gli Stati Uniti a non appoggiare alcun tentativo di porre fine al conflitto.

Pertanto, l’alleato maggiore non abbandona il proprio socio di minoranza, fintantoché la situazione rimane gestibile. Tuttavia, si iniziano ad intravedere delle crepe. Per quanto il sostegno rimanga fermo in termini di azioni concrete (finanziamenti, uso del veto all’ONU), si iniziano a notare dei riposizionamenti strategici a livello comunicativo e dei timidi cambi di prospettiva: i media iniziano piano piano ad assumere posizioni meno entusiastiche e ad insinuare dubbi; la Casa Bianca sembra avere smesso di dubitare pubblicamente dei dati sulle vittime da parte del ministero della sanità di Gaza; Biden ha dichiarato che Israele sta mettendo rischio il sostegno di cui gode a livello internazionale; Sullivan ha chiesto ad Israele di porre fine alla fase “acuta” del conflitto al più presto. D’altro canto, Israele si sta sempre più alienando le simpatie della comunità internazionale, attraverso le proprie azioni e la condotta militare del conflitto, la retorica che a voler essere generosi si può solo definire come “sopra le righe”, gli attacchi rabbiosi contro qualsiasi istituzione provi a porre un freno alla situazione sempre più grave a Gaza, che siano le Nazioni Unite o la Corte Penale Internazionale (di cui né Israele né gli USA riconoscono la giurisdizione).
Il limitato ingresso cinese (attraverso una prima roadmap per la risoluzione dell’attuale conflitto) e l’aumentare dell’insofferenza degli alleati tradizionali nella regione (Egitto, Giordania, Arabia Saudita) potrebbero rivelarsi dei fattori decisivi per una svolta nella politica estera statunitense riguardo il conflitto israelo-palestinese.

Per quanto gli USA sposino a parole la soluzione a due stati (come quasi tutti i paesi), finora si sono dimostrati estremamente riluttanti nel cercare di implementarla, salvo proporre negoziati (a conti fatti, inutili), quando non l’hanno addirittura sabotata, come durante la presidenza Trump. Alle flebili proteste contro la politica degli insediamenti, non sono mai seguite azioni concrete e la posizione ufficiale è sempre rimasta quella che “Israele ha diritto di difendersi” – recentemente, un voto del congresso americano ha equiparato l’antisemitismo (discriminazione etnico-religiosa) con l’antisionismo (posizione politica di critica alla politica israeliana).

Alzerà mai la voce Biden? Difficile a dirsi; probabilmente non prima delle elezioni del 2024 (che lo vedono in grande difficoltà, nonostante l’oscuramento mediatico di Trump). A meno di svolte eclatanti, si procederà probabilmente con il massacro, business as usual.

A mio parere, questo spiega la scommessa della resistenza palestinese: dal momento che la solidarietà effettiva sul campo degli alleati tradizionali è stata tiepida o è completamente mancata (Hezbollah mantiene una pressione nominale sul nord di Israele per impegnare parte delle forze dell’IOF e l’Iran non sembra essersi mosso oltre una condanna formale), la sfida ora è resistere sino al punto di rottura di Israele, creando le condizioni per un cessate il fuoco duraturo; ottenere l’appoggio di una comunità internazionale non più accondiscendente alle politiche della destra israeliana; isolare Israele dal punto di vista mediatico e vincere la battaglia comunicativa; porre le basi per un nuovo equilibrio sostenibile che risponda perlomeno ad alcune delle aspirazioni palestinesi. Tutto questo, cinicamente, ha richiesto un alto numero di vittime civili per rendere esplicita la crudeltà dell’occupazione. In un mondo più giusto, non ci sarebbero dubbi sulla disumanità di una simile scommessa, ma dopo averle provate tutte, che opzioni rimangono al popolo palestinese? Come abbiamo visto in questi due mesi in Cisgiordania, a coloni e IOF non interessa evitare vittime civili. Gaza ha subito bombardamenti devastanti rivendicati con orgoglio dall’establishment israeliano.

Per chi si trova con le spalle al muro e privo di alternative, ogni soluzione è valida per raggiungere il proprio obbiettivo.

Da parte mia, come sempre:
Pace agli oppressi, morte agli oppressori.
سلام للشعب – فلسطيبن حرة


No Surprises

This post is dedicated to all my contacts who reacted to the U.S. veto of the U.N. resolution for a cease-fire in the Gaza Strip with dismay and disappointment. I understand your feelings and partially share them, but as much as it depresses me, the news did not surprise me in the least. The propaganda about American values (freedom, justice, equality) and the actions on the ground of U.S. imperialism are contradictory. The Israeli-Palestinian conflict is not only not an exception, but rather a further confirmation of this.

First, it is crucial to recognize the existence of a complex patron-client relationship between Israel and the U.S.: the U.S. supports Israel militarily and financially, Israel provides a regional presence with no small amount of deterrent power, allowing the U.S. military-industrial complex to focus its physical presence on other fronts.
Precisely in light of this, it does not surprise me in the least that the U.S. voted (now) as it did: one of its most famous mottos, after all, is “the customer is always right.” Without touching the difficult and problematic subject of the influence of Israeli lobbying in the U.S., the U.S. usually only abandons its allies with enormous reluctance, especially when its interests are still aligned. This explains the establishment’s unwillingness to condemn Israeli military conduct, while in the Ukrainian war they had immediately supported the allegations of Russian human rights violations; the question here is not the merit of the allegations, whether well-founded or not, but in the political will to follow up on them.

There is an additional consideration that plays into the decision of choosing not to support the demands for a ceasefire: Israel, to date, has not achieved any major military “success” or advances towards the goals stated at the beginning of the campaign. Hamas’ operations centers have not been dismantled, the Palestinian resistance continues to operate through the various factions (brought together in the Joint Operations Room), Hezbollah remains a threat on the northern border despite Iranian silence. The only result so far has been to cause a very high number of civilian deaths and to attract criticism from many countries and international institutions. As public opinions in countries allied with Israel become more and more disconnected from their politicians and less easily manipulated, solidarity with Palestine proves enduring even in countries where the conditions for expressing it publicly are more complicated (see Germany).
Not exactly a success to brag about, in short.

The stated goal of “destroying Hamas,” moreover, makes it difficult to disengage and impossible to obtain a cease-fire on the Israeli-U.S. side: any cease-fire (as was the case with the brief truce) requires negotiating with the very “existential” enemy, and any outcome other than the annihilation of the political/military group in Gaza would be interpreted as a failure. This is also why, in the absence of an “excellent” result that would allow the two allies to “save face,” it is unthinkable that a new pause in the fighting would be called for. The lack of a plan for the day after in the Gaza Strip contributes to the confusion and compels the U.S. not to support any attempt to end the conflict.

Therefore, the major ally won’t abandon its junior partner as long as the situation remains manageable. However, cracks are beginning to appear. As steadfast as they remain in terms of concrete actions (funding, use of the veto at the UN), it’s possible to see the beggining of a strategic repositioning on the communication level and tentative shifts in perspective: the media are slowly beginning to take less enthusiastic positions and insinuate doubts; the White House seems to have stopped publicly doubting the casualty figures from the Gaza Health Ministry; Biden has stated that Israel is putting at risk its international support; Sullivan has called on Israel to end the “high intensity” phase of the conflict as soon as possible. On the other hand, Israel is increasingly alienating the sympathies of the international community, through its own actions and military conduct of the conflict, its rhetoric that can only be described as “over the top” (to be generous), its furious attacks on any institution that tries to de-escalate the situation in Gaza, be it the United Nations or the International Criminal Court (whose jurisdiction neither Israel nor the U.S. recognizes).
The limited Chinese input (through an initial roadmap for peace between Israel and Palestine) and the increasing impatience of traditional allies in the region (Egypt, Jordan, Saudi Arabia) could prove decisive factors for a shift in U.S. foreign policy regarding the Israeli-Palestinian conflict.

As much as the U.S. vocally espouses the two-state solution (as almost all countries do), it has so far been extremely reluctant in trying to implement it, except to arrange negotiations (which have proved, on average, useless), when it hasn’t actively sabotaged it, like during the Trump presidency. The feeble protests against the settlement policy have never been followed by concrete actions, and the official position has always remained that “Israel has the right to defend itself” – recently, a U.S. congressional vote equated anti-Semitism (ethnic-religious discrimination) with anti-Zionism (a political stance criticizing Israeli policy).

Will Biden raise his voice? Hard to say; if it’s going to happen, it probably won’t happen before the 2024 elections (which see him in great difficulty, despite Trump’s media blackout). Barring truly surprising twists and turns, the slaughter will probably proceed, business as usual.

In my opinion, this explains the gamble of the Palestinian resistance: since the solidarity on the ground from traditional allies has been lukewarm or completely lacking (Hezbollah maintains nominal pressure on northern Israel to engage some of the IOF forces, and Iran does not seem to have moved beyond a formal condemnation), the challenge now is to hold out until Israel’s breaking point, creating the conditions for a lasting ceasefire; gain the support of an international community no longer compliant with the policies of the Israeli right-wing; isolate Israel mediatically and win the communication battle; and lay the groundwork for a new sustainable balance that meets at least some of the Palestinian aspirations. All this, cynically, required a high number of civilian casualties to make explicit the cruelty of the occupation. In a more just world, there would be no doubt about the inhumanity of such a gamble, but after trying everything, what options remain for the Palestinian people? As we have seen in the past two months in the West Bank, settlers and IOF do not care about avoiding civilian casualties. Gaza has suffered devastating bombings proudly boasted about by the Israeli establishment.

Those who find themselves with their backs against the wall and without alternatives, will say that any solution is valid to achieve their goal.

On my part, as always:
Peace to the oppressed, death to the oppressors.
سلام للشعب – فلسطيبن حرة

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