[Verosimile.]

(perché non sai mai cosa ti possa succedere)

Tiro su la cerniera dell’impermeabile nuovo, quello grosso da pescatore che ho trovato finalmente l’altro giorno all’usato, dopo mesi di ricerca. Mi è un po’ grande ma tanto meglio, mi copre anche le ginocchia e i polpacci che mi si inzuppano sempre. È giallo come il cielo, una coperta di nuvole di cui non si distinguono i contorni. La solita cappa insomma, che si riflette sulle pozzanghere e sui campi di riso mettendo un filtro biancastro sul paesaggio.

Piove da tre giorni dopo sei mesi senza una goccia, la terra era una crosta talmente dura che per le prime 12 ore di temporale l’acqua è scivolata direttamente nei fossi e nei canali riempiendo già da subito i bacini d’emergenza. Poi il temporale è girato in pioggia, tiepida e monotona.

Mollo la tendina della finestra, esco di casa e prendo la macchina, completamente ammaccata dalla grandine come tutte le altre. L’ultima tempesta mi ha fatto saltare uno specchietto; andrò dal carrozziere per vedere se riesce a sistemarmelo entro stasera.

È un giorno di lavoro ma sono solo le dieci del mattino, ho ancora qualche ora prima di entrare a scuola quindi mi avvio per qualche commissione, guidando sulla strada leggermente rialzata al di sopra dei campi allagati e dei bacini di conservazione idrica. Un airone cinerino guarda le poche auto che circolano: i dintorni della città sono poco trafficati da quando hanno eliminato tutte le corriere e i bus di linea, dopo la nuova linea di tram e i convitti in ogni scuola. Mi ricordo ancora le infinite discussioni e le proteste delle famiglie, sarà stato il 2028…

Faccio il giro esterno del centro per tornare al negozio dell’usato, allestito in un hangar della vecchia caserma americana, uno degli edifici rimasti agibili dopo l’abbandono e l’incendio. Mentre entro con l’auto da quella che una volta era l’entrata principale guardo i pezzi accartocciati del cancello, ancora appesi ai cardini in modo precario, e le bandiere incrociate delle insegne, dipinte di nero e rosso con la bomboletta spray.

Al magazzino trovo un nuovo bidone per l’acqua piovana, un maglioncino di cotone (quelli di lana ormai non li uso più, neanche a gennaio) e un pannello solare 50×50. Esco soddisfatta e avviandomi al lavoro costeggio la muraglia della caserma, crollata in alcuni punti e ancora macchiata di fuliggine.

Imbocco il ponte che porta in centro scavalcando il quartiere trasformato, negli ultimi anni, in bacino di sfogo dei due fiumi durante le piene e di raccolta d’acqua per le siccità. Dall’alto osservo i muri ammuffiti dello stadio, che spunta per metà dall’acqua come il campanile di Curon, il paesino sommerso in Val Venosta. I locali abbandonati dell’edificio – raggiungibili dalla strada attraverso passerelle e ballatoi pieni di vasi di piante e di rampicanti – sono occupati dai centri sociali della città da quando alcune loro sedi sono state demolite per la costruzione del treno ad alta velocità (che ad oggi è ancora fermo a Marghera per via degli allagamenti). I muri esterni dello stadio sono coperti di graffiti fino al pelo dell’acqua, su cui spesso si vede scivolare un barchino giallo dalla vernice scrostata, che fa avanti e indietro dalla riva quando si organizza qualche evento. D’estate non è male perché la sera proiettano dei film sugli spalti e l’acqua rinfresca un po’ l’aria (non ci sono tante zanzare perché rane, carpe e pipistrelli le tengono a bada, e non c’è neanche troppa puzza). Sotto di me, non lontano sento il rumore di un treno che passa.

Ha smesso di piovere. Le poche persone in giro hanno ancora i cappucci rinforzati calati sulla fronte, ma ora di grandine non ne scenderà più. Per qualche giorno o per altri sei mesi, non sappiamo prevederlo.

Soledad

NOTA SULLE IMMAGINI:

Alcune sono false, altre, purtroppo, sono vere.

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