ALBUM DELLA SETTIMANA: Irish Republican Jail Songs

Dublin City Ramblers – Irish Republican Jail Songs

Una raccolta essenziale di canzoni dalla lunga tradizione di lotta dal carcere irlandese, per ricordare che la libertà è costata molto cara e il suo valore è incalcolabile. Include alcune famose canzoni come James Connolly, The Old Triangle e Take Me Home to Mayo, assieme ad altre meno conosciute al grande pubblico come Over The Wall, Kevin Barry e Robert Emmett. Perché la storia d’Irlanda non è solo quadrifogli, pinte e leprecauni – è una storia di resistenza a tirannia e colonialismo.
Tiocfaidh ár lá! (Il nostro giorno verrà)

An essential compilation of songs from the longstanding Irish tradition of jail struggles, to remember that freedom was won at a high cost and it’s value is immeasurable. It includes some famous songs, such as James Connolly, The Old Triangle and Take Me Home to Mayo, along with some lesser known to the general public like Over The Wall, Kevin Barry and Robert Emmett. Because Ireland is not just leprecauns, pints of porter, and shamrocks – it’s a history of resistance to tiranny and colonialism.
Tiocfaidh ár lá! (Our day will come)

Irish Republican Jail Songs – Dublin City Ramblers
1978, Dolphin Records
Irish Folk music

A Bobby Sands – To Bobby Sands
Our revenge will be the laughter of our children”

Billy Pilgrim

I BISCOTTI DANESI DEL KF

I DISASTRI DELLA GUERRA

di Francisco José de Goya y Lucientes
Soggetto 03 – Con o senza la ragione

In mostra a Milano fino al 3 Marzo Goya – La ribellione della ragione
Tutte le incisioni

Ricordo di aver fissato questa incisione durante la mia visita. Con razon o sin ella, il titolo in corsivo sotto la testa fracassata in primo piano.
Mai avrei immaginato una frase potesse essere così crudele.

I disastri della guerra sono una serie di 82 incisioni che l’artista Francisco Goya eseguì durante la lunga e sanguinosa Guerra di indipendenza spagnola (1808-1814).

Kitty

ALBUM DELLA SETTIMANA: Gaza Calling

Artisti vari

Un’iniziativa del Nuovo Canzoniere Partigiano in collaborazione con diversi artisti vicentini, a cui sentiamo di voler dare visibilità e sostegno.

Dal sito del N.C. Partigiano:

“Gaza Calling è una compilation digitale di brani inediti, demo, live version offerti da band e songwriters vicentine per raccogliere fondi da destinare alla ABSPP, Associazione Benefica al Supporto del Popolo Palestinese, attiva dal 1994 e con diverse sedi in Italia.

La comunità musicale del Vicentino ha scelto di metterci la faccia, di diventare comunità attiva e dare il proprio contributo concreto in un momento così oscuro.
[…]

“Qualcuno dirà che un’iniziativa del genere a poco serve: tutto serve invece, e con urgenza.
Siamo felici che le voci della comunità musicale vicentina si alzino all’unisono in solidarietà col popolo Palestinese oppresso da decenni di occupazione e apartheid.”

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Il Nuovo Canzoniere Partigiano presents: Gaza Calling,

Gaza Calling is a digital compilation of unreleased songs, demos, live versions offered by bands and songwriters from the Vicenza area to raise funds for the ABSPP, Charity Association for the Support of the Palestinian People, active since 1994 and with various offices in Italy.

The musical community of the Vicenza area has chosen to show up, to become an active community and make its own concrete contribution in such a dark moment.
[…]

“Someone will say that an initiative like this is of little use: instead everything is needed, and urgently.
We are happy that the voices of the Vicenza musical community are rising together in solidarity with the Palestinian people oppressed by decades of occupation and apartheid.”


Gaza Calling – 1979, Abulafya, Alberto Dori, Amalia Bloom, Amber, Amen Sioux, Bastiano, Blopa, il Buio, BRUUNO, Clamp, Closing Parade, il Complesso del Brodo, le Corriere della Sera, Dadarà, DenDen, Diplomatics, Duvalier, Folks, stay home, Follow the Laser, Hearts Apart, HEXN, InO, JØNA, Lamante, Messa, Miss Chain and the Broken Heels, Montmartre Memories, NN, nhybnd, Nuovo Canzoniere Partigiano, Osteria Popolare Berica, Panda Kid, Phill Reynolds, Radio Riot Right Now, Regarde, Sciantixo, Stegosauro, lo Strano Frutto, TARE, The Key Moment, Vertical, Wildsheep
2024

Various Artists – Gaza Calling by Nuovo Canzoniere Partigiano

Kollettivo Ferramenta

Niente di nuovo, ma

Non c’è nulla di nuovo nella storia dei manifestanti che ieri mattina, a Vicenza, sono stati caricati e manganellati dalla polizia in tenuta antisommossa.

Ma si può ricordare che le volte in cui si sono verificati scontri durante i cortei in questa città, è stato in occasioni ben precise: quindici anni fa quando si lottava contro la terza base militare statunitense vicentina, la caserma Dal Molin (rinominata in corsa “Dal Din” nel tentativo di far perdere la memoria di battaglie accanite e molto partecipate); ieri per aver provato a esprimere il dissenso verso la presenza del padiglione di Israele alla fiera dell’oro. Entrambe questioni di orgoglio vicentino – leggi tornaconti personali e servitù militari di vecchissima data.

Non è inoltre una novità che i giornali modulino la realtà a seconda dei propri interessi ma ieri pomeriggio, una volta terminato il corteo alla fiera, diecimila persone hanno marciato ancora per sollevare una discussione pubblica sulla legittimità della presenza di Israele alla fiera. Per chiedere alle istituzioni di riflettere su questa scelta e di prendere posizione. Ma, al contrario degli scontri della mattina, non abbiamo letto nulla in proposito sulle testate nazionali.

E in più le suddette istituzioni, perdendosi tra (presunti) buoni sentimenti e retorica, sbrodolando sull’arma e scomodando anche i padri costituenti, hanno perso una preziosa occasione per esprimersi sul genocidio in atto in Palestina. In pratica, la notizia non è più stata il padiglione israeliano né l’accanimento di Israele sulla popolazione della striscia di Gaza, ma “i violenti incappucciati e armati, antidemocratici e incoerenti”, come si legge sui social.

Dimenticando quindi di relativizzare l’accaduto in relazione al pesante problema posto dai manifestanti, nel tentativo di non sbilanciarsi – come è giudiziosamente richiesto alle figure istituzionali (anche qui, nessuna novità) – le personalità pubbliche si sono al contrario sbilanciate eccome, approvando gli attacchi della polizia contro manifestanti anche molto giovani e criminalizzandone le azioni concrete, ossia modificare il percorso del corteo per entrare nella zona della fiera, nel tentativo di bloccarne l’entrata. Un’intenzione, quest’ultima, che avrebbe avuto un potente significato simbolico e che racconta un ritrovato entusiasmo delle associazioni e dei collettivi, ripopolati (dopo un’ondata di disinteresse legata, in parte, ai lockdown per l’epidemia di covid) da giovani studenti e ragazzi appassionati e interessati ad avere un ruolo nelle decisioni politiche.

Evitare di deludere e incattivire tutti loro – non solo quelli che sono stati pestati, a volte anche tre contro uno, ma anche tutti quelli che hanno assistito alla scena o sentito la notizia – contro una “democrazia” che impedisce di manifestare, non dovrebbe essere la preoccupazione principale di sindaci ed assessori alle politiche giovanili? Dare una risposta istituzionale che sia educativa per chi ha scelto, con la passione di chi così giovane sceglie di lottare per le idee che ritiene giuste, non dovrebbe prevalere su “ciò che un sindaco dovrebbe dire”?

A quanto pare no; le nuove generazioni vanno scoraggiate con la violenza, ignorate, deluse e, all’occorrenza, criminalizzate. Forse perché non aprire un dialogo tiene vivo il rapporto conflittuale con le forze dell’ordine, e la paura che è alla base del potere stesso di queste ultime. Ma questo è un altro discorso (e di certo non una novità).

Cara Vicenza, anche stavolta non se ne va fuori ma sappi che chi resiste non mancherà mai, neanche “in ‘sta città de rotti in culo, de fassisti e baccalà”.

Alla prossima

Soledad

No surprises


English below – this post has benefitted from the proofreading by Emilia and Deekshitha for IT and EN respectively. Any typos/errors/issues in grammar and syntax are only mine.
Inglese sotto. Questo post è stato rivisto da Emilia e Deekshitha rispettivamente per la versione IT e EN. Qualsiasi refuso/errore/problema sintattico-grammaticale è solo colpa mia.

Questo pezzo è dedicato a tutti i miei contatti che hanno accolto il veto statunitense alla risoluzione ONU per il cessate il fuoco nella Striscia di Gaza con sgomento e delusione: capisco i vostri sentimenti e li condivido in parte, ma per quanto mi deprima, la notizia non mi ha minimamente colto di sorpresa. Da sempre la propaganda sui valori americani (libertà, giustizia, uguaglianza) e le azioni sul campo dell’imperialismo USA sono in contraddizione. Il conflitto israelo-palestinese non solo non è un’eccezione, ma anzi ne rappresenta un’ulteriore conferma.

Per prima cosa è fondamentale riconoscere l’esistenza di una complessa relazione clientelare tra Israele e USA: gli USA sostengono militarmente e finanziariamente Israele, Israele garantisce una presenza regionale con un potere deterrente non indifferente – permettendo al complesso industriale-militare statunitense di concentrare la propria presenza fisica su altri fronti.
Proprio alla luce di questo, non mi stupisce minimamente che gli USA abbiano votato (ora) come hanno votato: uno dei loro motti più famosi, d’altronde, è “il cliente ha sempre ragione”. Anche tralasciando lo scivoloso discorso sull’attività lobbistica israeliana negli Stati Uniti, gli USA tendono ad abbandonare i loro alleati con enorme riluttanza, specialmente quando i loro interessi sono ancora allineati. Questo spiega la ritrosia dell’establishment nel condannare la condotta militare israeliana, mentre sul campo ucraino avevano immediatamente sostenuto le accuse di violazioni dei diritti umani da parte della Russia; la questione non è nel merito delle accuse, fondate o meno, bensì nella volontà politica di dare seguito a tali accuse.

C’è un ulteriore aspetto da tenere in considerazione nella scelta di non sostenere le richieste di cessate il fuoco: Israele, ad oggi, non ha conseguito alcun grande “successo” militare rispetto agli obbiettivi dichiarati all’inizio della campagna. Le centrali operative di Hamas non sono state smantellate, la resistenza palestinese continua ad operare attraverso le varie fazioni (riunite nella Joint Operations Room), Hezbollah rimane una minaccia sul confine nord nonostante il silenzio iraniano. L’unico risultato ottenuto è stato quello di provocare un altissimo numero di morti civili ed attirare le critiche di molti paesi e istituzioni internazionali. Le opinioni pubbliche dei paesi alleati di Israele sono sempre più scollate dai propri politici e meno facilmente ricattabili, la solidarietà con la Palestina si dimostra duratura persino in paesi in cui le condizioni per esprimerla pubblicamente sono più complicate (vv. Germania).
Non esattamente un successo di cui vantarsi, insomma.

L’obbiettivo dichiarato di “distruggere Hamas”, inoltre, rende difficile smarcarsi e rende impossibile ottenere un cessate il fuoco da parte israelo-statunitense: qualsiasi cessate il fuoco (così com’è stato per la breve tregua) richiede di negoziare proprio con il nemico “esistenziale” e qualsiasi risultato diverso dall’annientamento del gruppo politico/militare a Gaza verrebbe interpretato come un fallimento. Anche per questo, in assenza di un risultato “eccellente” che permetta ai due alleati di “salvare la faccia” è impensabile che venga richiesta una nuova pausa nei combattimenti. La mancanza di un piano per gestire la Striscia di Gaza una volta terminato il conflitto contribuisce a creare confusione e a costringere gli Stati Uniti a non appoggiare alcun tentativo di porre fine al conflitto.

Pertanto, l’alleato maggiore non abbandona il proprio socio di minoranza, fintantoché la situazione rimane gestibile. Tuttavia, si iniziano ad intravedere delle crepe. Per quanto il sostegno rimanga fermo in termini di azioni concrete (finanziamenti, uso del veto all’ONU), si iniziano a notare dei riposizionamenti strategici a livello comunicativo e dei timidi cambi di prospettiva: i media iniziano piano piano ad assumere posizioni meno entusiastiche e ad insinuare dubbi; la Casa Bianca sembra avere smesso di dubitare pubblicamente dei dati sulle vittime da parte del ministero della sanità di Gaza; Biden ha dichiarato che Israele sta mettendo rischio il sostegno di cui gode a livello internazionale; Sullivan ha chiesto ad Israele di porre fine alla fase “acuta” del conflitto al più presto. D’altro canto, Israele si sta sempre più alienando le simpatie della comunità internazionale, attraverso le proprie azioni e la condotta militare del conflitto, la retorica che a voler essere generosi si può solo definire come “sopra le righe”, gli attacchi rabbiosi contro qualsiasi istituzione provi a porre un freno alla situazione sempre più grave a Gaza, che siano le Nazioni Unite o la Corte Penale Internazionale (di cui né Israele né gli USA riconoscono la giurisdizione).
Il limitato ingresso cinese (attraverso una prima roadmap per la risoluzione dell’attuale conflitto) e l’aumentare dell’insofferenza degli alleati tradizionali nella regione (Egitto, Giordania, Arabia Saudita) potrebbero rivelarsi dei fattori decisivi per una svolta nella politica estera statunitense riguardo il conflitto israelo-palestinese.

Per quanto gli USA sposino a parole la soluzione a due stati (come quasi tutti i paesi), finora si sono dimostrati estremamente riluttanti nel cercare di implementarla, salvo proporre negoziati (a conti fatti, inutili), quando non l’hanno addirittura sabotata, come durante la presidenza Trump. Alle flebili proteste contro la politica degli insediamenti, non sono mai seguite azioni concrete e la posizione ufficiale è sempre rimasta quella che “Israele ha diritto di difendersi” – recentemente, un voto del congresso americano ha equiparato l’antisemitismo (discriminazione etnico-religiosa) con l’antisionismo (posizione politica di critica alla politica israeliana).

Alzerà mai la voce Biden? Difficile a dirsi; probabilmente non prima delle elezioni del 2024 (che lo vedono in grande difficoltà, nonostante l’oscuramento mediatico di Trump). A meno di svolte eclatanti, si procederà probabilmente con il massacro, business as usual.

A mio parere, questo spiega la scommessa della resistenza palestinese: dal momento che la solidarietà effettiva sul campo degli alleati tradizionali è stata tiepida o è completamente mancata (Hezbollah mantiene una pressione nominale sul nord di Israele per impegnare parte delle forze dell’IOF e l’Iran non sembra essersi mosso oltre una condanna formale), la sfida ora è resistere sino al punto di rottura di Israele, creando le condizioni per un cessate il fuoco duraturo; ottenere l’appoggio di una comunità internazionale non più accondiscendente alle politiche della destra israeliana; isolare Israele dal punto di vista mediatico e vincere la battaglia comunicativa; porre le basi per un nuovo equilibrio sostenibile che risponda perlomeno ad alcune delle aspirazioni palestinesi. Tutto questo, cinicamente, ha richiesto un alto numero di vittime civili per rendere esplicita la crudeltà dell’occupazione. In un mondo più giusto, non ci sarebbero dubbi sulla disumanità di una simile scommessa, ma dopo averle provate tutte, che opzioni rimangono al popolo palestinese? Come abbiamo visto in questi due mesi in Cisgiordania, a coloni e IOF non interessa evitare vittime civili. Gaza ha subito bombardamenti devastanti rivendicati con orgoglio dall’establishment israeliano.

Per chi si trova con le spalle al muro e privo di alternative, ogni soluzione è valida per raggiungere il proprio obbiettivo.

Da parte mia, come sempre:
Pace agli oppressi, morte agli oppressori.
سلام للشعب – فلسطيبن حرة


No Surprises

This post is dedicated to all my contacts who reacted to the U.S. veto of the U.N. resolution for a cease-fire in the Gaza Strip with dismay and disappointment. I understand your feelings and partially share them, but as much as it depresses me, the news did not surprise me in the least. The propaganda about American values (freedom, justice, equality) and the actions on the ground of U.S. imperialism are contradictory. The Israeli-Palestinian conflict is not only not an exception, but rather a further confirmation of this.

First, it is crucial to recognize the existence of a complex patron-client relationship between Israel and the U.S.: the U.S. supports Israel militarily and financially, Israel provides a regional presence with no small amount of deterrent power, allowing the U.S. military-industrial complex to focus its physical presence on other fronts.
Precisely in light of this, it does not surprise me in the least that the U.S. voted (now) as it did: one of its most famous mottos, after all, is “the customer is always right.” Without touching the difficult and problematic subject of the influence of Israeli lobbying in the U.S., the U.S. usually only abandons its allies with enormous reluctance, especially when its interests are still aligned. This explains the establishment’s unwillingness to condemn Israeli military conduct, while in the Ukrainian war they had immediately supported the allegations of Russian human rights violations; the question here is not the merit of the allegations, whether well-founded or not, but in the political will to follow up on them.

There is an additional consideration that plays into the decision of choosing not to support the demands for a ceasefire: Israel, to date, has not achieved any major military “success” or advances towards the goals stated at the beginning of the campaign. Hamas’ operations centers have not been dismantled, the Palestinian resistance continues to operate through the various factions (brought together in the Joint Operations Room), Hezbollah remains a threat on the northern border despite Iranian silence. The only result so far has been to cause a very high number of civilian deaths and to attract criticism from many countries and international institutions. As public opinions in countries allied with Israel become more and more disconnected from their politicians and less easily manipulated, solidarity with Palestine proves enduring even in countries where the conditions for expressing it publicly are more complicated (see Germany).
Not exactly a success to brag about, in short.

The stated goal of “destroying Hamas,” moreover, makes it difficult to disengage and impossible to obtain a cease-fire on the Israeli-U.S. side: any cease-fire (as was the case with the brief truce) requires negotiating with the very “existential” enemy, and any outcome other than the annihilation of the political/military group in Gaza would be interpreted as a failure. This is also why, in the absence of an “excellent” result that would allow the two allies to “save face,” it is unthinkable that a new pause in the fighting would be called for. The lack of a plan for the day after in the Gaza Strip contributes to the confusion and compels the U.S. not to support any attempt to end the conflict.

Therefore, the major ally won’t abandon its junior partner as long as the situation remains manageable. However, cracks are beginning to appear. As steadfast as they remain in terms of concrete actions (funding, use of the veto at the UN), it’s possible to see the beggining of a strategic repositioning on the communication level and tentative shifts in perspective: the media are slowly beginning to take less enthusiastic positions and insinuate doubts; the White House seems to have stopped publicly doubting the casualty figures from the Gaza Health Ministry; Biden has stated that Israel is putting at risk its international support; Sullivan has called on Israel to end the “high intensity” phase of the conflict as soon as possible. On the other hand, Israel is increasingly alienating the sympathies of the international community, through its own actions and military conduct of the conflict, its rhetoric that can only be described as “over the top” (to be generous), its furious attacks on any institution that tries to de-escalate the situation in Gaza, be it the United Nations or the International Criminal Court (whose jurisdiction neither Israel nor the U.S. recognizes).
The limited Chinese input (through an initial roadmap for peace between Israel and Palestine) and the increasing impatience of traditional allies in the region (Egypt, Jordan, Saudi Arabia) could prove decisive factors for a shift in U.S. foreign policy regarding the Israeli-Palestinian conflict.

As much as the U.S. vocally espouses the two-state solution (as almost all countries do), it has so far been extremely reluctant in trying to implement it, except to arrange negotiations (which have proved, on average, useless), when it hasn’t actively sabotaged it, like during the Trump presidency. The feeble protests against the settlement policy have never been followed by concrete actions, and the official position has always remained that “Israel has the right to defend itself” – recently, a U.S. congressional vote equated anti-Semitism (ethnic-religious discrimination) with anti-Zionism (a political stance criticizing Israeli policy).

Will Biden raise his voice? Hard to say; if it’s going to happen, it probably won’t happen before the 2024 elections (which see him in great difficulty, despite Trump’s media blackout). Barring truly surprising twists and turns, the slaughter will probably proceed, business as usual.

In my opinion, this explains the gamble of the Palestinian resistance: since the solidarity on the ground from traditional allies has been lukewarm or completely lacking (Hezbollah maintains nominal pressure on northern Israel to engage some of the IOF forces, and Iran does not seem to have moved beyond a formal condemnation), the challenge now is to hold out until Israel’s breaking point, creating the conditions for a lasting ceasefire; gain the support of an international community no longer compliant with the policies of the Israeli right-wing; isolate Israel mediatically and win the communication battle; and lay the groundwork for a new sustainable balance that meets at least some of the Palestinian aspirations. All this, cynically, required a high number of civilian casualties to make explicit the cruelty of the occupation. In a more just world, there would be no doubt about the inhumanity of such a gamble, but after trying everything, what options remain for the Palestinian people? As we have seen in the past two months in the West Bank, settlers and IOF do not care about avoiding civilian casualties. Gaza has suffered devastating bombings proudly boasted about by the Israeli establishment.

Those who find themselves with their backs against the wall and without alternatives, will say that any solution is valid to achieve their goal.

On my part, as always:
Peace to the oppressed, death to the oppressors.
سلام للشعب – فلسطيبن حرة

Vicenza impossibile

Queste piccole città venete, dunque, senza importanza, sorte a mezza strada tra il mare
e i granducati dell’interno, chiuse da campi e colline dove la nebbia bassa e di un colore stinto confonde e intorbida paesaggi e pensieri, vivono di una vita propria,
ai margini della storia degli uomini e del Paese.


Goffredo Parise, Il prete bello (1954)

“Dopo la giornata di mobilitazione del 6 ottobre, [il] pomeriggio [di] sabato 7 ottobre il Coordinamento studentesco e Fridays for Future Vicenza hanno occupato lo stabile dell’ex caserma della Guardia di Finanza in contra’ Mure della Rocchetta, in centro storico, di proprietà comunale e in stato di abbandono da decenni” (Vez News, 7/10/2023), dove si è svolta una serata di musica e festa piuttosto ben riuscita prima che l’occupazione fosse sgomberata, a mezzanotte. Un’idea abbastanza coraggiosa per una città come Vicenza, non particolarmente nota per occupazioni e scontri ma nella quale uno zoccolo duro abbastanza tenace resiste da decenni a continue delusioni.

Vez News

Un atto che però ha avuto il difetto di non dare il via ad un’azione più ampia e programmata, ma di essere una piccola provocazione iniziata e terminata nel giro di 12 ore senza lasciare tracce. È probabile che questo gesto non avrà la risonanza sufficiente ad accelerare davvero i processi di ristrutturazione della ex caserma o di qualsiasi altro edificio vicentino abbandonato. Infatti, nonostante molti di essi – tra cui l’ex guardia di finanza – abbiano già da quasi un anno ottenuto i fondi per attuare dei progetti di recupero (soprattutto case popolari), in nessuno dei siti si è visto il minimo segno di rinnovamento.

Eppure la questione della speculazione edilizia e del consumo di suolo a Vicenza è molto urgente: in media, dal 2019 ad oggi, è stato costruito da zero un nuovo supermercato all’anno (di cui uno, il Famila di via Torino, è già chiuso dopo solo due anni di attività) e ovunque, in città e nei paesi limitrofi, si vedono costruire complessi residenziali nuovi di zecca che restano poi sfitti per anni. Per non parlare di ecomostri come il complesso di Borgo Berga, la base militare statunitense Dal Din e il treno ad alta velocità, per i quali Vicenza è quasi stata esclusa dal patrimonio Unesco, oltre a subire tutti i rischi, in primis quelli idrogeologici, legati alla cementificazione.

I vecchi edifici da rivalorizzare vengono invece ignorati, se non a parole, sicuramente nei fatti. Parlo, oltre che dell’ex guardia di finanza, del vecchio macello di Vicenza, in origine un palazzo palladiano ma, dopo numerosi abbandoni e ristrutturazioni, ormai completamente irrecuperabile (il Giornale di Vicenza nel 1959 già lo dichiarava un problema “urgente”). Marcisce da decenni appeso a impalcature storte e l’insegna pubblicitaria dello studio fotografico Vajenti, rosso squillante, è l’unico elemento che impedisce all’occhio di abituarsi a quei muri informi che, di fatto, per noi sono là da sempre. E che ci ricorda che il rudere è ancora lì, tra i due fiumi, accanto alla piazza dedicata a Matteotti e a un minuto da Palazzo Chiericati, dove fino a pochi anni fa – fino, cioè, all’ordinanza “anti degrado” del novembre 2018 dell’allora sindaco Francesco Rucco – giovani e adolescenti si sedevano ogni pomeriggio, a gruppetti, sui gradini e tra le colonne per chiacchierare e stare insieme. Quel rosso ci segnala il potenziale sprecato di spazi che, in un punto così centrale e bello della città (di fronte, al di là del fiume e del ponte di ferro, si vede la bianca Villa Piovene, restaurata di recente), potrebbero diventare luoghi di aggregazione e di cultura, sullo stile del Faber Box di Schio, o ospitare una nuova biblioteca, dato che i locali di quella storica cadono a pezzi.

Giornale di Vicenza, 1959

Le idee non mancherebbero per rianimare Vicenza, che ormai sembra tornare in vita – brevissimamente e affannosamente – solo nei pomeriggi del fine settimana, galvanizzata da gente che la affolla per aperitivi sovraprezzati e acquisti convulsi, per poi cadere nel silenzio più totale la sera dopo le nove, perfino di sabato.

Guardando dentro le finestre senza vetri dell’ex mattatoio e attraverso il soffitto sfondato del piano terra, vedo il vano di una porta che dà, ora, sul vuoto e su un cumulo irriconoscibile di mobili e spazzatura. Accanto c’è un termosifone, ancora appeso al muro, sotto un tetto che non c’è quasi più. Riesco ad immaginare le persone che hanno percorso quei corridoi e abbassato la maniglia della porta, per entrare in un ufficio adesso completamente scomparso; e guardando gli infissi datati e quello che resta dell’arredo penso a Budapest, dove palazzi e fabbriche abbandonati si sono trasformati in pub e discoteche, spesso mantenendo e rivisitando in modo creativo parte degli interni originari (non è raro vedere piastrelle marroni di una cucina anni ‘60 su un muro rosa fluo, con un maiale stroboscopico appeso al soffitto). Se l’ex macello fosse stato recuperato in tempo, forse oggi quel termosifone sarebbe dipinto di rosso e ascolterebbe la techno ogni sabato notte. Invece il progetto prevede, in una delle città più inquinate d’Italia e in una zona che andrebbe sgravata dal traffico, ovviamente un parcheggio.

Per il momento, comunque, nulla sembra muoversi a parte l’intonaco dei muri e le travi dei soffitti. Come nei vecchi cinema del centro (Corso, Arlecchino, Roma e Palladio), anch’essi in stato di completo abbandono da anni o decenni e per i quali sarebbe bello in futuro vedere qualcosa di diverso da negozi o grandi magazzini di lusso, soluzione che è stata scelta invece per il cinema Italia in Piazza delle Poste a Vicenza o nel teatro Italia di Cannaregio, a Venezia.

Il cinema Corso, forse in parte grazie alla sua posizione molto centrale è apparentemente uno degli edifici abbandonati rimasti più intatti. Attraverso i vetri oscurati delle porte non si vede nulla; sul marciapiedi e sulle colonne, stencil di farfalle nere segnalano i catenacci alle maniglie; le statue della facciata sono ancora tutte intere. Ma mute.

Nei locali dell’Arlecchino, nell’ultimo decennio si è tentato di installare delle aule universitarie, ma sono durate poco. Ci sono ancora lo stemma dell’università di Padova, banchi e poltrone, ma catene e sbarramenti a impedire persino che qualcuno ci si possa riparare per qualche ora la notte.

La struttura in cui si inserisce il cinema è l’edificio anni quaranta della vecchia fiera, che si affaccia sul Giardino Salvi direttamente sulla roggia Seriola (per la salute della quale non si è ancora steso un progetto idrico davvero efficace) e si incastra tra la Loggia Longhena e la Loggia Valmarana, di cui riprende il motivo a colonne in un’eco che resta moderna a distanza di settant’anni. Il progetto di ristrutturazione sembra prevedere un auditorium dentro al cinema e uno spazio espositivo all’interno dell’ex fiera, per il quale qualche anno fa è stato coinvolto anche lo IUAV (progetto VIsioni in corso d’opera).

Nel Giardino Salvi, dal 2016 al 2018 si sono svolte alcune edizioni piuttosto ben riuscite del Lumen Festival, con concerti e street-food; nonostante gli spazi del parco fossero piuttosto limitati, non si è tentato di cavalcare il successo dell’iniziativa per dare una spinta alla ristrutturazione dell’edificio della fiera che invece, per via dei suoi ampi spazi interni e per i suoi esterni particolari, oltre che ben conservati, si presterebbe molto bene ad ospitare grossi gruppi di persone per eventi musicali di quel genere. Non essendo ancora fatiscente né pericolante, probabilmente in una città meno rigida e miope l’ex fiera si sarebbe potuta prestare ad una sorta di “occupazione controllata” a lungo termine come quella del quartiere di Metelkova a Lubiana, un coloratissimo esempio di autogestione creativa in una città relativamente piccola.

Oltre a questi già numerosi edifici abbandonati, nelle immediate vicinanze della spiaggetta sul Bacchiglione, diventata negli ultimi anni un luogo di ritrovo estivo piuttosto fighetto (divanetti bianchi, palme, spritz a 5 euro), e del frequentatissimo park Fogazzaro, c’è il vecchio carcere di San Biagio chiuso dal 1986. Lì durante la guerra furono imprigionati e torturati numerosi partigiani; a ricordarlo nel 2020 è stata posta una lapide commemorativa (in cui però si sente la mancanza della parola “partigiani”), ma al di là di questo, nonostante esistano delle associazioni interessate al luogo e delle proposte di convertirlo in un museo sulla storia dell’edificio, non si mette in moto nessuna discussione, né men che meno un progetto. Con una storia così densa e soffocante che ti fissa da dietro le sbarre delle finestre nere, si fa fatica a pensarlo un potenziale luogo di svago; ma invece di sollevare la questione, chiunque passi di lì ogni giorno decide di lasciarsi fissare, anziché cercare di cambiare le cose.

Così, in un pomeriggio, attraverso l’obiettivo della macchina fotografica ho percorso con l’immaginazione una Vicenza impossibile. Cosmopolita, in rinnovamento, attenta all’ambiente e fiera del suo passato e del suo patrimonio artistico.

E che esiste solo nella fantasia. Nella realtà, come ci raccontano gli scrittori che ci sono nati, è da sempre un posto in cui la nebbia offusca i colori e rallenta la storia – e può darsi che ci piaccia anche così.

Soledad

Il conflitto a Berlino

Translation below


Vivere in Germania con un po’ di senso critico ed essendo solidali con il popolo palestinese è difficile.

L’atmosfera a Berlino è pesante, specialmente considerato che la capitale tedesca ospita la più grande comunità palestinese europea – concentrata specialmente nel quartiere di Neukölln.
Ci si aspetterebbe quindi di vedere le stesse scene di Madrid o di Londra, grandi manifestazioni e solidarietà.

Invece solo silenzio.

Il motivo è molto semplice, le autorità hanno vietato fino al 17 ottobre qualsiasi manifestazione pro-Palestina. Non contento, il Bundesregierung (governo federale) ha annunciato di aver sospeso gli aiuti tedeschi alla Palestina e che li sottoporrà a revisione con l’assistenza di Israele. Non dell’ONU, non di Amnesty International, la Red Crescent o la Croce Rossa, non con Medici Senza Frontiere. Con Israele.

Mi pare logico e coerente.

Da tre anni ormai, per tutto il mese che precede il giorno della Nakba (15 maggio), ogni manifestazione pro-Palestina è vietata e qualsiasi persona che sembri solidale con i palestinesi rischia come minimo una perquisizione (anche solo per aver indossato una keffiyah). L’anno scorso, il gruppo Jüdische Stimmen (Voci Ebraiche) si è visto negare l’autorizzazione a celebrare una veglia per l’assassinio di Shireen Abu Akleh, la giornalista di Al-Jazeera uccisa da un proiettile israeliano, perché la veglia avrebbe potuto condurre a potenziali atti di antisemitismo (1).

Vorrei sottolineare un momento l’ironia dello stato tedesco, che vieta ad un gruppo ebraico di manifestare adducendo come motivazione l’antisemitismo.

Arriviamo a questa settimana: il governo di Berlino ha nuovamente vietato le manifestazioni, stavolta fino al 17 ottobre. Quella di ieri a Neukölln si è svolta tra slogan tutto sommato innocenti (ma in Germania basta un “Palestina libera” per rischiare di passare per sostenitori del terrorismo…) e violenze della polizia, arrivando a scene allucinanti come quella di una madre costretta a staccare uno sticker con la bandiera della Palestina dalla carrozzina che spingeva. Follia.

Questa non è prevenzione dell’antisemitismo (che è effettivamente un problema all’interno del movimento), ma prevenzione dell’antisionismo. Come descrivere altrimenti le scellerate scelte di appoggiare acriticamente un governo criminale come quello Netanyahu?

La città di Berlino ha illuminato la Porta di Brandeburgo con i colori della bandiera israeliana; mi chiedo cos’avranno pensato i senatori dopo aver scoperto che lo stato che tanto vivacemente difendono si proponeva di compiere un crimine di guerra e lo stava annunciando ad alta voce al mondo? Probabilmente dormono ancora sonni tranquilli.

Come li dorme l’insegnante che ha sferrato un pugno ad un alunno, reo di aver spiegato una bandiera palestinese a scuola; risultato? La scuola ha sospeso l’alunno (2) e la polizia ha disperso la manifestazione di solidarietà degli studenti.
Pur di difendere Israele, questo e altro.

Ora si aggiunge che la Germania ha autorizzato Israele ad utilizzare cinque droni e si impegna a reprimere Hamas sul suolo tedesco (3), urlando a pieni polmoni di aver un ruolo storico da compiere in difesa di Israele.

Se tutto questo non bastasse, la segretaria della SPD ha rinunciato ad incontrare Bernie Sanders a margine di un evento presso la Rosa-Luxemburg Stiftung per le sue opinioni sul conflitto e per aver sostenuto che Gaza sia una prigione a cielo aperto e che il taglio di cibo, acqua ed elettricità costituisca un crimine di guerra e contro l’umanità (opinioni sostenute anche dai pericolosissimi islamisti dell’ONU e dell’UE). Ripeto lentamente: una segretaria di partito tedesco rifiuta di incontrare un politico di religione ebraica figlio di sopravvissuti all’Olocausto per aver sprecato l’occasione di “denunciare chiaramente Hamas e stare dalla parte di Israele” e per le sue dichiarazioni “eticamente relativiste” (3). Chiaramente, non si tratta di antisemitismo, se una politica tedesca non-ebrea si sente in diritto di censurare le opinioni di un figlio di sopravvissuti all’Olocausto – o sei con Israele o sei un terrorista, non importa se tu fai parte della stessa comunità che Israele sostiene di rappresentare.

Giustamente si dice, l’Olocausto è partito da qui, il paese ha fatto i conti col passato…beh, insomma. Il paese si è fatto i suoi conti, tant’è che negli anni 50 e 60 nella Repubblica Federale centinaia di funzionari nazisti sono stati reintegrati al servizio della pubblica amministrazione, comprese figure di spicco come vari ministri, sia della CDU che della SPD. Qui un articolo a riguardo pubblicato qualche anno fa da Der Spiegel.

Cosa rimane allora? Rimane che ci troviamo di fronte ad un paese che anziché apprendere dalla propria storia ed imporsi come difensore dei diritti umani di tutti i popoli (nozione già potenzialmente problematica), si schiera acriticamente dalla parte di uno stato coloniale che ha già dimostrato di non considerare troppo importanti i diritti umani, le risoluzioni ONU o persino i trattati che esso stesso ha sottoscritto, il tutto per lavarsi la coscienza delle colpe di un passato mai troppo remoto. (Grazie a Nathaniel Flakin di LeftVoices per aver contribuito a ispirare questi paragrafi)

Come dicevo durante una discussione con un conoscente tedesco, è certamente giusto aspettarsi che canti e slogan antisemiti non abbiano posto nelle manifestazioni, specialmente quelle di sinistra, ed è francamente assurdo doverlo specificare al giorno d’oggi. Allo stesso modo, però, è impossibile pretendere che una comunità brutalizzata da decenni di violenze, abbandonata a sé stessa e ridotta al silenzio ovunque vada non rischi di cedere al fascino di un movimento che offre una soluzione, violenta, ma una soluzione alle loro sofferenze. Non credo sia così difficile capire che senza occupazione, scomparirebbe pure Hamas.

Uno dei ritornelli che più si ascoltano qui in Germania è che sarebbe tutta colpa di Hamas e che la Palestina dovrebbe liberarsi di loro; posto che di solidarietà e simpatia per Hamas ne provo zero, ma la domanda sorge spontanea: è Hamas il responsabile delle violenze sulla spianata delle moschee lo scorso Ramadan? Chi ha dal 2008 alla settimana scorsa ucciso 6407 palestinesi? Chi disattende il diritto internazionale e cinge d’assedio Gaza dal 2007?

Chiaramente, non sono qui a condonare i crimini di guerra; sono qui perché li aborro e perché credo che la giustizia sia l’unica via per la pace. Prima se ne accorgeranno gli stati europei (con le dovute eccezioni di Irlanda e Spagna, principalmente), meglio sarà per tutti.

Pace agli oppressi, morte agli oppressori.
سلام للشعب – فلسطيبن حرة


THE CONFLICT IN BERLIN

Living in Germany having some critical sense and expressing solidarity with the Palestinian people is hard.

The atmosphere in Berlin is heavy, especially given that the German capital is home to the largest Palestinian community in Europe – concentrated especially in the Neukölln neighborhood.
Therefore, one could expect to see the same scenes as in Madrid or London, big demonstrations and solidarity.

Instead, only silence.

The reason is very simple, the authorities have banned until October 17 any pro-Palestinian demonstrations. That not being enough, the Bundesregierung (federal government) announced that it has suspended German development aid to Palestine and will review it with the assistance of Israel. Not the UN, not Amnesty International, the Red Crescent or the Red Cross, not with Doctors Without Borders. With Israel.

That seems logical and reasonable.

For three years now, for the entire month leading up to Nakba Day (May 15), every pro-Palestinian demonstration has been banned, and any person who appears to stand in solidarity with the Palestinians risks at least being searched by the Polizei (even if only for wearing a keffiyah). Last year, the group Jüdische Stimmen (Jewish Voices) was denied permission to hold a vigil for the murder of Shireen Abu Akleh, the Al-Jazeera journalist killed by an Israeli bullet, because the vigil could have led to potential acts of anti-Semitism (1).

I would like to point out for a moment the irony of the German state banning a Jewish group from demonstrating on the grounds of anisemitism.

Fast forward to this week: the Berlin government has again banned demonstrations, this time until October 17. Yesterday’s one in Neukölln took place amidst frankly innocent slogans (but in Germany all it takes is a “Free Palestine” to risk passing off as a supporter of terrorism…) and police violence, reaching nonsensical scenes such as a mother being forced to peel off a Palestine flag sticker from the baby carriage she was pushing. Madness.

This is not prevention of anti-Semitism (which is indeed a problem within the movement), but prevention of anti-Zionism. How else to describe the dastardly choices of uncritically supporting a criminal government like Netanyahu’s?

The city of Berlin lit up the Brandenburg Gate in the colors of the Israeli flag; I wonder what the senators must have been thinking after they found out that the state they so fervently defend was proposing to commit a war crime and was loudly announcing it to the world? They are probably still sleeping soundly.

As sleeps the teacher who threw a punch at a pupil who was guilty of unfurling a Palestinian flag at school; result? The school suspended the pupil (2) and the police dispersed the students’ solidarity demonstration.
Whatever is takes to defend Israel.

Now add that Germany has authorized Israel to use five drones and pledges to crack down on Hamas on German soil (3), screaming at the top of its lungs that it has a historic role to play in Israel’s defense.

As if all this wasn’t enough, the chairwoman of the SPD has cancelled on meeting Bernie Sanders on the sidelines of an event organised at the Rosa-Luxemburg Stiftung for his opinions on the confluict and for claiming that Gaza is an open-air prison and that cutting food, water and electricity consitutes a war crime and a crime against humanity (same opinion held by the dangerous islamists sitting in the UN and in the EU.) Again, slowly: a German party chairwoman refuses to meet a Jewish politician son of Holocaust survivors for wasting the opportuntiy of “clearly stand on the side of Israel and against the terror of Hamas and others” and giving up “his earlier relativizations” (3). Clearly, it’s not about anitsemitism if a non-Jewish German politician can censor the opinions of a Jewish son of Holocaust survivors – either you’re with Israel, it doesn’t matter if you’re part of the same community Israel claims to represent.

Rightly so they say, the Holocaust started here, the country has come to terms with the past…well, I mean. The country has come to terms with it, so much so that in the 1950s and 1960s in the Federal Republic (West Germany) hundreds of Nazi officials were reinstated in the civil service, including such prominent figures as various ministers from both the CDU and SPD. Here is an article about this published a few years ago by Der Spiegel.

What remains then? What remains is that we are confronted with a country that instead of learning from its history and establishing itself as a defender of the human rights of all peoples (a notion that is already potentially problematic), uncritically sides with a colonial state that has already shown that it does not care too much for human rights, UN resolutions or even treaties it itself has signed, all in order to clear its conscience of the sins of a never-too-distant past. (Thanks to Nathaniel Flakin of LeftVoices for inspiring these paragraphs)

As I was saying during a discussion with a German acquaintance, it is certainly fair to expect that anti-Semitic chants and slogans have no place in demonstrations, especially leftist ones, and it is frankly absurd to have to specify this in this day and age. By the same token, however, it is impossible to expect that a community brutalized by decades of violence, left to its own devices and reduced to silence wherever it goes will not risk giving in to the allure of a movement that offers a solution, violent, but nonetheless a solution to their suffering. I don’t think it is so difficult to imagine that without occupation, Hamas would disappear as well.

One of the refrains one hears most often here in Germany is that it would all be Hamas’ fault and that Palestine should get rid of them; granted that I don’t feel solidarity and sympathy for Hamas, the question arises: is Hamas responsible for the violence on the al-Aqsa compound (or Temple Mound) last Ramadan? Who killed 6407 Palestinians from 2008 to last week? Who has been disregarding international law and besieging Gaza since 2007?

Clearly, I am not here to condone war crimes; I am here because I abhor them and because I believe that justice is the only way to peace. The sooner European states (with the due exceptions of Ireland and Spain, mainly) realize this, the better off everyone will be.

Peace to the oppressed, death to the oppressors.
سلام للشعب – فلسطيبن حرة

Gaza 2023

Traduzione in inglese sotto / English translation below

[Ashraf Amra/Reuters]

Ho appreso dell’operazione militare di Gaza poco dopo aver aperto gli occhi ieri mattina.
Nelle ore confuse passate a cercare notizie attendibili, mi sono reso conto che il mio cuore iniziava a spezzarsi sempre di più.

Da un lato la sorpresa e l’ammirazione per un’azione così disperatamente audace e di successo; dall’altro, la consapevolezza del bagno di sangue che ne conseguirà. C’è chi dice che stiamo assistendo in diretta alla decolonizzazione; io non ne sono così sicuro.

Dopo l’iniziale sorpresa, Israele ha iniziato a reagire e, al momento in cui scrivo, la risposta militare israeliana ha causato già più di 300 morti a Gaza, mentre altrettante sono le vittime dell’attacco in Israele. Non mi va di celebrare questo momento storico inaspettato e sorprendente con toni trionfalistici, né con gioia; si tratta del colpo di coda di un popolo che negli anni è stato portato allo stremo. Una fiammata, enorme e improvvisa, generata da una brace che Israele tenta, con brutalità spesso inaudita, di soffocare.

La mia solidarietà va al popolo palestinese e a tutti i civili che soffrono in queste ore le conseguenze delle brutali, disumani e violentissime pratiche portate avanti dallo stato israeliano. Non intendo aggiungermi ai coretti dei pacifisti pelosi che sostengono che la violenza sia sempre sbagliata e magari tacevano quando durante il Ramadan l’esercito israeliano arrestava e picchiava i credenti sulla spianata delle Moschee e a Gerusalemme, di chi ha fatto finta di non vedere a Sheik Jarrah, di chi si è tappato la bocca di fronte all’ultimo attacco dell’aviazione su Gaza.

Questa situazione ha responsabili con precisi nomi e cognomi: i ministri che incitano a dissacrare i luoghi religiosi, che coprono i violenti espropri e le occupazioni dei coloni, che avallano pratiche sempre più discriminatorie e violente, dalle torrette automatiche ai checkpoint all’autorizzazione a sparare proiettili veri sulle manifestazioni, passando per le discriminazioni verso cristiani e musulmani e ai divieti di matrimonio interreligioso. Israele non smette di scoprire le proprie carte e continua ad aumentare la pressione sulla propria popolazione palestinese e sugli abitanti dei Territori Occupati, di cui erode sempre più le speranze di un minimo di normalità e torchia a piacimento. Nessuna sorpresa se poi la pentola a pressione, dopo un tot, scoppia.

La mia solidarietà va al popolo palestinese, doppiamente preda di uno stato che ne vorrebbe cancellare l’esistenza e di leadership corrotte e autocratiche – Hamas non si fa troppi scrupoli a zittire il dissenso interno e a dirigere in maniera autoritaria la vita civile e politica di Gaza.

Il mio cuore si spezza a metà tra il dolore che mi crea immaginare quale sarà la repressione e la speranza che perlomeno questa vampata possa aiutare a risollevare le condizioni di vita degli abitanti dei Territori Occupati, in vista della fine di un apartheid che dura da troppo troppo tempo.
Conosciamo però il carattere di Netanyahu e non coltivo alcuna illusione che questo accada – posso solo sperare che questo smuova lentamente la comunità globale (pronunciato con tono sarcastico) a riconsiderare il proprio appoggio a uno stato criminale che ha portato a questa situazione, attraverso pratiche fasciste, etno-nazionaliste e criminali, levando qualsiasi speranza ad un popolo spossessato della propria terra e del controllo sulla propria vita.

Come sempre, la parola d’ordine è una sola: contro tutti gli stati e le bandiere, pace tra gli oppressi. E morte agli oppressori.
فلسطين حرة – سلام للشعب

Qui il live reportage di Al-Jazeera:
https://www.aljazeera.com/news/liveblog/2023/10/8/israel-palestine-escalation-live-israeli-forces-bombard-gaza


I learned about the Gaza military operation shortly after opening my eyes yesterday morning.
In the confused hours spent looking for reliable news, I realized that my heart was beginning to break more and more.

On the one hand, I felt surprise and admiration for such a desperately bold and successful action; on the other, the awareness of the bloodbath that will ensue started to creep in. Some say we are witnessing live decolonization; I am not so sure.

After the initial shock, Israel has begun to retaliate, and at the time of writing, the Israeli military response has already claimed more than 300 lives in Gaza, while the Palestinian attack has claimed as many casualties in Israel. I do not feel like celebrating this unexpected and surprising moment in history with triumphalist tones, nor with joy; this is the tailspin of a people driven to the brink over the years. A blaze, huge and sudden, generated from embers that Israel attempts, with often unheard-of brutality, to smother.

My solidarity goes out to the Palestinian people and all the civilians who are suffering in these hours the consequences of the brutal, inhumane and extremely violent practices carried out by the Israeli state. I do not intend to join the choruses of the slick pacifists who claim that violence is always wrong and perhaps were silent when the Israeli army was arresting and beating believers on the Esplanade of Mosques and in Jerusalem during Ramadan, who pretended not to see in Sheik Jarrah, who kept their mouths shut in the face of the latest air strike on Gaza.

The perpetrators of this situation have faces and names: the ministers who incite the desecration of religious sites, who cover up violent expropriations and settler occupations, who endorse increasingly discriminatory and violent practices, from automatic turrets at checkpoints to authorizing the firing of live ammunition at demonstrations, up to the discrimination against Christians and Muslims and bans on interfaith marriage. Israel never ceases to lay its cards on the table and continues to increase the pressure on its own Palestinian population and on the inhabitants of the Occupied Territories, increasingly eroding and torching at will their hopes for a modicum of normalcy. No surprise if the pressure cooker explodes at some point.
My solidarity goes out to the Palestinian people, who are doubly prey to a state that would like to erase their existence and to corrupt and autocratic leadership – Hamas is not too shy about silencing internal dissent and authoritarianly directing Gaza’s civil and political life.

My heart is split between the pain that gives me imagining what the crackdown will look like and the hope that at least this blaze will help to lift the living conditions of the inhabitants of the Occupied Territories, and some day end an apartheid that has lasted far too long.
We know Netanyahu’s character, however, and I harbor no illusions that this will happen – I can only hope that this will slowly push the global community (pronounced in a sarcastic tone) to reconsider its support for a criminal state that has brought about this situation, through fascist, ethno-nationalist and criminal practices, stealing all hope from a people dispossessed of their land and control over their lives.

As always, the word is one: against all states and flags, peace among the oppressed. And death to the oppressors.
فلسطين حرة – سلام للشعب

Here is the live reporting by Al-Jazeera:
https://www.aljazeera.com/news/liveblog/2023/10/8/israel-palestine-escalation-live-israeli-forces-bombard-gaza