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Sono al settimo giorno di clausura causa peste.
Sette giorni che non fumo. Che non bevo. Che non esco. Che non parlo faccia a faccia con un essere umano che non sia un membro della mia famiglia.
Che palle.
Secondo A. dovrei trasformare questo blog in un diario umoristico delle mie disavventure sentimentali. Io non ne sono troppo convinto. Una volta scritte, risulterebbero tristi e/o crudeli nei confronti delle interessate. Quando le racconto al massimo risulto triste io, sulla scia del pagliaccio di Böll cui mi ha una volta paragonato Mona (adorabile 23enne tedesca di cui manco seppi il cognome prima che svanisse); se le scrivo, si perdono tutti i toni, le smorfie, le braccia levate al cielo e l’enfasi esagerata che ti fa capire che, sì, io sono una povera vittima, ma non del tutto incolpevole. Cioè, “povero, che sfiga, ma forse un motivo c’è…” e a saperlo, mi sarei risolto un botto di grane nella vita. Ecco, se lo individuate, fatemi sapere.
C’è da dire che B., in visita a Berlino, qualche buon consiglio me lo ha dato, ma partiamo da presupposti diversi: lei c’ha una gemella, io ho chiesto un fratello senza mai pentirmene; lei ricerca(va) la solitudine, io la rifuggivo, fin da bambino. Semplicemente, la mia compagnia mi annoia. Non so come facciate voi, ma vi ringrazio e vi credo sulla parola.
Ecco, un annetto di psicoterapia serve anche a questo: a smetterla di darvi dei deficienti perché mi volete bene (per chi mi vuole bene). Ecco, io (non) valgo, ancora fin lì non ci siamo arrivati, però almeno ho smesso di credere che siate tutti stati presi da un attacco di demenza collettiva quando avete deciso di essermi amici e di restarmi accanto, non è un gigantesco patto suicida di masochismo collettivo, una sfida a chi resiste più a lungo in apnea dal mandarmi affanculo. Siete sinceri, probabilmente. La cosa mi terrorizza.
Un annetto di psicoterapia per scendere a patti che l’ansia ce l’ho e non me la levo. Per capire che forse qualche qualità ce l’ho. Per trovarmi moderatamente attraente accettabile. Che poi se iniziamo così dopo il mio ego va in modalità mongolfiera e chi lo riprende più.
Ma tanto c’è una sindrome dell’impostore grande come una casa a tenermi coi piedi per terra, causata dal mio passato “attivismo” e che mi fa sentire un grillo parlante, un blablabla, un rafaniello. Così, quando mi sento un figo, ripenso al fatto che l* compagn* si pigliano le botte e io ai cortei quasi manco più ci vado e vedi come torna l’umiltà.
Ormai fatico molto a parlare di politica e quando lo faccio mi sento un cacchio di liberal, poi J. parte coi discorsi sulla cancel culture e la vena magicamente si gonfia, lo sguardo si focalizza e mi faccio tutto rosso in volto. E urlo, oh, come urlo. Non è bello, ma mi si provoca, istiga, stuzzica. Certe volte pare che si diverta a farsi urlare addosso e lì si capisce che l’unica argomentazione contro il masochismo collettivo di cui sopra è il rasoio di Occam: non è semplicemente possibile che siate tutti così.
Questi pensieri in libertà, beninteso, non hanno lo scopo di farvi sospirare per me, di intenerirvi, nemmeno di innamorarvi. Mi svuoto la cabeza e se voi avete la sfiga di leggerli, peggio per voi. O meglio per voi, magari vi piacciono. O avete due minuti da perdere.
Il buon M. dall’alto del suo americano ottimismo mi ha già invitato un paio di volte a considerare la scrittura seriamente; lui ci si paga l’affitto. Bellissimo, ma non so più cosa dire. Le mie vicende sono poco interessanti, se non mi conoscete. La politica? Non riesco più a guardare al futuro senza una smorfia di cinismo e il passato è passato, è pornografia dei ricordi di epoche innocue perché mai vissute. Perché quasi tutti i protagonisti sono morti. E allora di che parliamo? E infatti non parlo di nulla. E parlo di sempre meno con sempre meno persone.
E. mi avrebbe tirato una sberla se mi avesse sentito parlare così, tra un gelato e l’altro. Lei ha molto apprezzato l’Italia e se l’è filata prima di prendersi la peste. Bravissima.
E in tutta questa enorme, gigantesca, primordiale afasia abilmente occultata da un’incessante logorrea, A. mi ha appena ricordato che forse dovrei aprire un canale YouTube invece di scrivere sul blog. E trasformarmi così nella Carrie teutonica di un Sex and the City in salsa berlinese.
I couldn’t help but wonder… (vedetevi il video qui, è uno spettacolo)
PS sì, ho usato il maschile sovraesteso. Sì, non è particolarmente inclusivo, ma è (attualmente) la soluzione più accessibile per evitare confusione e casini. Absit iniuria verbis.