Sette giorni

Sono al settimo giorno di clausura causa peste.
Sette giorni che non fumo. Che non bevo. Che non esco. Che non parlo faccia a faccia con un essere umano che non sia un membro della mia famiglia.
Che palle.

Secondo A. dovrei trasformare questo blog in un diario umoristico delle mie disavventure sentimentali. Io non ne sono troppo convinto. Una volta scritte, risulterebbero tristi e/o crudeli nei confronti delle interessate. Quando le racconto al massimo risulto triste io, sulla scia del pagliaccio di Böll cui mi ha una volta paragonato Mona (adorabile 23enne tedesca di cui manco seppi il cognome prima che svanisse); se le scrivo, si perdono tutti i toni, le smorfie, le braccia levate al cielo e l’enfasi esagerata che ti fa capire che, sì, io sono una povera vittima, ma non del tutto incolpevole. Cioè, “povero, che sfiga, ma forse un motivo c’è…” e a saperlo, mi sarei risolto un botto di grane nella vita. Ecco, se lo individuate, fatemi sapere.

C’è da dire che B., in visita a Berlino, qualche buon consiglio me lo ha dato, ma partiamo da presupposti diversi: lei c’ha una gemella, io ho chiesto un fratello senza mai pentirmene; lei ricerca(va) la solitudine, io la rifuggivo, fin da bambino. Semplicemente, la mia compagnia mi annoia. Non so come facciate voi, ma vi ringrazio e vi credo sulla parola.

Ecco, un annetto di psicoterapia serve anche a questo: a smetterla di darvi dei deficienti perché mi volete bene (per chi mi vuole bene). Ecco, io (non) valgo, ancora fin lì non ci siamo arrivati, però almeno ho smesso di credere che siate tutti stati presi da un attacco di demenza collettiva quando avete deciso di essermi amici e di restarmi accanto, non è un gigantesco patto suicida di masochismo collettivo, una sfida a chi resiste più a lungo in apnea dal mandarmi affanculo. Siete sinceri, probabilmente. La cosa mi terrorizza.

Un annetto di psicoterapia per scendere a patti che l’ansia ce l’ho e non me la levo. Per capire che forse qualche qualità ce l’ho. Per trovarmi moderatamente attraente accettabile. Che poi se iniziamo così dopo il mio ego va in modalità mongolfiera e chi lo riprende più.

Ma tanto c’è una sindrome dell’impostore grande come una casa a tenermi coi piedi per terra, causata dal mio passato “attivismo” e che mi fa sentire un grillo parlante, un blablabla, un rafaniello. Così, quando mi sento un figo, ripenso al fatto che l* compagn* si pigliano le botte e io ai cortei quasi manco più ci vado e vedi come torna l’umiltà.

Ormai fatico molto a parlare di politica e quando lo faccio mi sento un cacchio di liberal, poi J. parte coi discorsi sulla cancel culture e la vena magicamente si gonfia, lo sguardo si focalizza e mi faccio tutto rosso in volto. E urlo, oh, come urlo. Non è bello, ma mi si provoca, istiga, stuzzica. Certe volte pare che si diverta a farsi urlare addosso e lì si capisce che l’unica argomentazione contro il masochismo collettivo di cui sopra è il rasoio di Occam: non è semplicemente possibile che siate tutti così.

Questi pensieri in libertà, beninteso, non hanno lo scopo di farvi sospirare per me, di intenerirvi, nemmeno di innamorarvi. Mi svuoto la cabeza e se voi avete la sfiga di leggerli, peggio per voi. O meglio per voi, magari vi piacciono. O avete due minuti da perdere.

Il buon M. dall’alto del suo americano ottimismo mi ha già invitato un paio di volte a considerare la scrittura seriamente; lui ci si paga l’affitto. Bellissimo, ma non so più cosa dire. Le mie vicende sono poco interessanti, se non mi conoscete. La politica? Non riesco più a guardare al futuro senza una smorfia di cinismo e il passato è passato, è pornografia dei ricordi di epoche innocue perché mai vissute. Perché quasi tutti i protagonisti sono morti. E allora di che parliamo? E infatti non parlo di nulla. E parlo di sempre meno con sempre meno persone.

E. mi avrebbe tirato una sberla se mi avesse sentito parlare così, tra un gelato e l’altro. Lei ha molto apprezzato l’Italia e se l’è filata prima di prendersi la peste. Bravissima.

E in tutta questa enorme, gigantesca, primordiale afasia abilmente occultata da un’incessante logorrea, A. mi ha appena ricordato che forse dovrei aprire un canale YouTube invece di scrivere sul blog. E trasformarmi così nella Carrie teutonica di un Sex and the City in salsa berlinese.

I couldn’t help but wonder… (vedetevi il video qui, è uno spettacolo)

PS sì, ho usato il maschile sovraesteso. Sì, non è particolarmente inclusivo, ma è (attualmente) la soluzione più accessibile per evitare confusione e casini. Absit iniuria verbis.

Corona chronicles 8

Corona Chronicles 03-17/05

Inizia la fase due: da domani con pazienza e contingentati potrete tornare in ospedale, per fare un check up, non l’hanno bombardato, si aspetta, ma c’è. Pensateci, non è scontato.
(U., Italy, 3/05/2020)

Innanzitutto, scusate per l’attesa.
Siamo entrati da due settimane in “fase due” e pure sto blog ha deciso di adattarsi, con una pubblicazione bisettimanale. Questo è motivato dal fatto che, francamente, non sto vivendo tantissimo e quindi fatico ad accumulare le cose da dire.

Parte del problema, per quanto sembrerà assurdo, è anche il fatto che qui in Germania (specialmente a Berlino) non ci sia stata una “fase 1”: le restrizioni sono state modificate più volte, allentate, ristrette, ma sempre abbastanza sottovoce. Inoltre, volendo, avremmo potuto incontrarci, fare “vita sociale” mantenendo le distanze. Difficile quindi distinguere un prima da un dopo. Sì, i barbieri hanno riaperto, ma la gente è sempre andata in giro. Io stesso ero andato in ufficio per una settimana dopo che ci avevano invitati a rimanere tutti a casa.
Qui non c’è una “data di scadenza”, non c’è una data per il “liberi tutti”; sì, in teoria a giugno finisce il social distancing: vedremo cosa dice il RKI a riguardo. Io non ci spero troppo.

Questo mi porta all’altro problema che mi tormenta, ossia il non sapere quando potrò tornare (in visita) a casa. Quando potrò riabbracciare la mia famiglia? Quando rivedrò gli amici? Ho già passato lunghi periodi all’estero, non è quello a spaventarmi, è la palese mancanza di possibilità di scelta. Di nuovo torniamo al caffè senza panna: sapendo di poter tornare a casa in qualsiasi momento, me ne sarei rimasto qui tutti questi mesi senza batter ciglio; ora che non so quando potrò tornare (in sicurezza), la cosa mi sembra insopportabile.

Vi ricordate quando dicevo che chi sosteneva che ne saremmo usciti persone migliori si drogava? Ecco, il rientro di Silvia Romano ha spazzato via in gran parte tale illusione.
Non che mi aspettassi molto, ma il coro della destra* e di parte della sinistra si è prodigato in un concerto affatto simpatico sulla vicenda: abbiamo pagato troppo, abbiamo pagato i terroristi, è un’ingrata che si è convertita, è una martire che si è convertita, è sì una vittima ma anche un po’ una traditrice perché ora è islamica/sposata/incinta e così via.
(*qualche furbone potrebbe saltarsene fuori con la solta vecchia storia che destra e sinistra non esistono, ma stranamente certe critiche sono arrivate da certi personaggi e giornali che – sorprendentemente – fanno tutti riferimento a certe idee e aree. Inaspettato, vero?)
Ora io non entro nel merito perché non conosco la situazione: non collaboro con l’AISE, non sono un esperto di diplomazia internazionale o di negoziazione (anzi), non faccio parte del team di debriefing, non sono mai stato rapito, NON SONO SILVIA ROMANO.
Disclaimer: so benissimo che ha cambiato nome e pertanto dovrei chiamarla Aisha, come da sua decisione. Il motivo per cui persisto nel chiamarla Silvia è per non creare inutile confusione a qualche lettore. Scusa, Aisha.
Vorrei soltanto scrivere una nota a piè di pagina con alcune riflessioni fatte durante le mie chiacchierate con U.:
– parte del problema è che persiste un atteggiamento orientalista che impedisce di comprendere la complessità degli scenari che SR ha dovuto attraversare: chi è al-shabaab? Che tipo di Islam pratica? Come si differenzia da al-qaeda, al-nusra, daesh e compagnia brutta? Tutte domande che potrebbe essere interessante porsi, anziché berciare sulla sua conversione;
– il dibattito sulla conversione mette in luce alcuni problemi abbastanza grossi che non riusciamo a risolvere in Italia: uno è il predominio semiassoluto del Cattolicesimo; il secondo è il patriarcato, ancora diffusissimo a livello inconscio anche nel campo progressista;
– infine c’è stata la gestione mediatica della vicenda e il ruolo della vittima sotto i riflettori.
Se sul punto uno c’è poco da dibattere, dal momento che il pubblico italiano è mediamente molto ignorante quando si parla di Islam e tratta la geopolitica come se fosse una partita di campionato, i due punti seguenti sono molto più interessanti.
Prendiamo le accuse in merito alla conversione: da una parte le si rinfaccia di aver abbandonato il cattolicesimo, assurto in questo caso a unica opzione possibile in Italia, ignorando la presunta laicità dell’identità italiana in favore di una visione conservatrice, retriva e limitante dell’appartenenza nazionale: italiano è chi è bianco e cattolico, apparentemente. Un ritornello sicuramente non nuovo, ma sempre schifoso, specialmente nel 2020. Dall’altra parte, le si rinfaccia di aver abbracciato una religione che opprime le donne. Ecco, questo è il dato più interessante, dal momento che arriva dal campo che sventola la libertà di scelta come propria bandiera. L’islam è una scelta legittima per gli altri, non per noi che abbiamo combattuto per i nostri diritti. Io sono il primo ad ammettere che l’islam abbia dei grossi problemi per quanto riguarda l’autonomia delle donne – nonostante la situazione sia più sfumata di quanto non si voglia ammettere. Però qui si tratta piuttosto di nuovo di un tentativo di incasellare l’identità di Silvia, stavolta da sinistra: sei donna, non puoi schierarti con loro. In ogni caso, la tua autonomia sparisce, come donna, rappresenti tutte le donne, pertanto non puoi fare certe scelte. Questo è ciò che avviene quando il sessismo viene interiorizzato: si presenta un’imposizione come scelta di libertà – analogamente a quanto succede con il fatshaming.

Infine, è evidente che la situazione è stata gestita malissimo: si sarebbe dovuto aspettare, dare un po’ di respiro a Silvia e alla sua famiglia, far sapere con tranquillità che era stata liberata e che era sana e salva, invece di fare le foto in aeroporto e montare tutto il circo mediatico cui abbiamo assistito.
Invece, facendo così – e pubblicando tutte le illazioni, le dichiarazioni e le supposizioni in merito alla vicenda – Silvia è stata data in pasto al pubblico senza pietà. Pubblico che, poco sorprendentemente, si è accanito con grande ferocia su ogni singolo dettaglio: il velo, la conversione, l’abito (per le ragioni di cui sopra) e dulcis in fundo il suo sorriso. Perché in fondo la grande colpa di Silvia è quella di essere giovane, donna e sorridente. Non è decoroso per una vittima donna: dovrebbe essere traumatizzata, raccontare di indicibili torture e soprattutto ringraziare, ringraziare finché campa. Meglio ancora sarebbe stato se fosse stata una martire, ma non si può avere tutto, vero? E quindi guardatela, sorride, la stronza. È contenta, st’ingrata. Chissà come se l’è spassata, dopo essersela cercata.
Perché questa gente si trova ad odiarla così fortemente? Perché non è un uomo. Non ha il diritto di passare per un’esperienza terribile e uscirne con un sorriso di gioia (vorrei vedere voi all’idea di poter riabbracciare la vostra famiglia dopo 18 mesi come reagireste); doveva uscirne macilenta e distrutta, così avremmo davvero potuto darci una pacca sulla spalla e dirci di averla salvata per davvero. Una donna non ha il diritto di essere indipendente, autonoma e forte. Neanche se si tratta di sorridere ai fotografi, visto che in realtà nessuno di noi sa cos’abbia vissuto nel corso di quei mesi. Le donne sono fragili fiorellini da proteggere, madri, sante, vergini; di sicuro non decidono giovani di andarsene in un altro continente a far del bene.

Quando ci libereremo di tutto questo sarà sempre sempre troppo tardi.
(U.T., Berlin, 17/05/2020)

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Corona chronicles 7

Corona Chronicles 20/04-02/05

Ieri ho deciso di sfidare le mie preoccupazioni e ho voluto celebrare il primo maggio riprendendomi parte della mia normalità andando a piedi da casa fino ad Alexanderplatz.
Complice la bella giornata, devo dire che l’umore è molto migliorato. Anche fare la strada chiacchierando all’andata con U. e al ritorno con M. devo dire che ha contribuito.

Stiamo tutti quanti apprendendo a fatica a gestire la nostra socialità in maniera radicalmente diversa. Sarà interessante vedere cosa ne uscirà da questa tremenda esperienza. Io ci sto facendo il callo, ma mi scopro ogni giorno più ansioso o nervoso e irritabile. Capita che adesso una battuta si trasformi in un’offesa mortale, mentre due mesi fa mi sarebbe probabilmente scivolata addosso senza problemi. La situazione sta scoprendo la carne viva dei miei problemi e ferirsi diventa improvvisamente più facile.

Parte del problema è chiaramente la mancanza di contatto sociale; l’accumulo di ansia nasce, ad esempio, dal lavorare da casa anziché in ufficio, la mancanza di un contatto diretto con i colleghi, l’allungarsi dei tempi di comunicazione, sono tutti fattori che contribuiscono ad aumentare la mia naturale negatività.

In tutto questo si inserisce ovviamente un panorama sociopolitico desolante, in cui ancora una volta sembra che la scelta sia tra la vita e l’economia, tra la crisi economica e quella sanitaria, come se i soldi e la salute fossero mutualmente esclusivi, anziché discutere di come preservare entrambi. Io di soluzioni non ne ho, non ho le conoscenze necessarie per intervenire nel dibattito sulle ricette per uscire dalla situazione, né in campo economico né tantomeno in quello sanitario; però ho l’impressione che si stia ponendo la discussione in modo sbagliato. “Riaprire o tenere chiuso?” è una domanda terribilmente sbagliata, perché presuppone una scelta tra il lavoro e la salute; troveremo risposte più corrette solo cambiando la domanda: “Come riapriamo?” o “Come teniamo chiuso?”, ponendo quindi l’accento sulla salute e la difesa della popolazione, anziché sulla difesa di un’economia precrisi che non tornerà mai ad esistere immutata.

A questo proposito, uno spunto molto interessante è nato dalla conversazione con U. parlando del tema della memoria. Ecco, io continuo a ripetere in tutti i miei arrabbiatissimi post (che siano contro Confindustria, Renzi o chi si rifiuta di vendere le mascherine al prezzo stabilito) che è imperativo tenere a mente tutto. Sarà necessario per guarire affrontare il trauma e presentare il conto ai responsabili.

Tuttavia quando si parla di memoria, sono terribilmente pessimista: la nostra società (intesa in senso globale) è una società del rimosso: non siamo riusciti a chiudere la Resistenza, non siamo riusciti a chiudere gli anni di piombo, non confido troppo nel fatto che riusciremo a chiudere la pandemia. Si premerà per un ritorno al “come prima”, nonostante questo non sia possibile. La ragione è molto semplice e comprensibile: affrontare il trauma significa inserire una cesura nel flusso, dividere il prima dal dopo e accettare che il prima non tornerà mai più; questo, comprensibilmente, fa paura. È molto più confortante pensare che la nostra vita e la nostra storia siano dei flussi ininterrotti in cui non si avvertono scosse. L’alternativa è riconoscere di aver perduto qualcosa. Nessuno ne è immune, nemmeno io.

Però è necessario affrontare questi pensieri. Affrontare di petto il trauma. D’altronde è l’unico modo per guarire, anche se fa male. C’è una ragione se l’etimologia di farmaco parla sia di medicina sia di veleno.

Io intanto non vedo l’ora di poter tornare a dare un abbraccio senza temere per la salute degli altri o della mia.
(U.T., Berlin, 02/05/2020)

Yesterday I decided to face my worries and so I celebrated the International Workers’ Day by retaking some semblance of normality and I went from my place to Alexanderplatz.
Thanks to the nice weather, I must admit my mood visibly improved. Chatting with U. on my way to and with M. on my way back surely helped as well.

We’re all learning to manage our need for social relations in a radically different way. It will be interesting to see what will come out of this terrible experience. I’m getting used to it, but I find myself more and more anxious and irritable every day. It happens now that a joke turns into something terribly offensive, while two months ago I would have effortlessly ignored it. The situation is digging out my issues and hurting myself is suddenly way easier.

The lack of social contact is of course part of the problem; the rising anxiety, for example, stems from the fact that I’m working from home instead of being at the office, the absence of a direct contact with my colleagues, the communication getting slower, these are all factors that help increase my natural negativity.

All this, of course, while outside the socio-political landscape is devastatingly depressing, since the choice seems to be between life and the economy, between an economic crisis or a health one, as if money and health were mutually exclusive, instead of debating how to preserve both. I have no solutions, I don’t have the necessary knowledge to participate in the debate on how to get out of this situation, neither from an economic point of view nor from the medical side; but I still have the feeling that the discussion is based on the wrong premises. “To reopen or to keep shut?” is a terribly wrong question, as it pits the need to be healthy against the need to work; the only way to find a correct answer is to change the question to “How to reopen?” or “How to keep everything shut down?”, so that the emphasis is on defending the population and its health, rather than on defending an economy that will never be the same as before.

A very interesting point came out of my conversation with U. when talking about memory. This is something I keep insisting on in all my angry posts (be them against Confindustria – the national association of entrepreneurs, Matteo Renzi or the retailers that refuse to sell masks at a fixed price): it’s imperative to keep everything in mind for when the moment comes that we come out of this. It will be necessary in order to face the trauma and make those responsible pay.

However, when talking about memory, I’m terribly pessimist: our society is rooted in repression: we couldn’t successfully close the Resistenza (insurgence against the Nazi and Fascist regimes during the last years of World War 2), we couldn’t close the wounds of the ‘70s, I don’t think we’ll manage the wounds this crisis will produce. They will push to go back to an impossible “like before”. The reason is very simple and understandable: facing a traumatic event means to divide our own lives into a “before” and “after” and to accept that things will never go back to the way they were; this is understandably scary. It’s much more comforting to believe that our lives are uninterrupted streams that suffer no shocks. The alternative is to recognise that something got lost along the way. No one is immune to this, not even I.

Unfortunately, there is no alternative: we will have to face this trauma. It’s the only way to heal, though it hurts. It’s not a coincidence if the Greek word pharmakon (drug) meant both medicine and poison.

In the meantime I can’t wait to be able to hug someone without worrying about their health or mine.
(Translated by the author)

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Corona chronicles 6

Corona Chronicles 13-19/04

C’è chi dice che usciremo persone migliori da questa situazione.
Io sono dell’umile opinione che chi lo dice si droghi.
Se c’è una cosa che si è dimostrata il più in assoluto inefficace ad insegnare qualcosa al genere umano, è la disgrazia generalizzata.
Mentre il trauma personale può forse essere produttivo, ma in ogni caso crea le condizioni per un cambiamento, una situazione come quella attuale ci permette allegramente di condividere il senso della tragedia e non sentirlo nostro. La disgrazia è di tutti e non è di nessuno; mal comune, mezzo gaudio.

All’interno di questo paradigma mi ci iscrivo pienamente; per questo sono molto grato a tutte le persone che quotidianamente ribattono agli aforismi motivazionali, ricordando che non solo perché abbiamo molto più tempo da spendere a casa, per forza dobbiamo essere produttivi.
Certo, non poltrire tutto il giorno non è una cattiva idea; io, per mia fortuna, mi tengo attivo lavorando le mie 8 ore e passa al giorno. Poi quando cala il buio e disconnetto il pc, non ho egregiamente voglia di fare un cazzo. E se mi rifugio nei libri, è solo perché ne sono appassionato; se cucino, perché mi rilassa (e ho fame); se faccio le maratone di serie tv, perché ho bisogno di disconnettere il cervello.
Questa non è una prova divina da superare.

L’onda alta non ti tira a fondo per vedere quanto sei bravo a nuotare; il virus se ne sbatte se diventi più virtuoso.
E infatti mi arrabbio continuamente con tutti quelli che dicono che “è la Terra che si ribella”. Un cazzo. È un sistema che avrebbe dovuto essere, se non abbattuto, almeno molto migliorato decenni fa, che dimostra tutti i propri limiti di fronte alla devastante forza di un universo che ci ignora.

“…e lì proprio ho percepito quanto alla Natura, all’Universo, alle foglie, ai sassi…quanto nun gliene può frega’ de meno de te, se stai bene, se stai male, se sei felice, se stai a soffri’, se sei vivo e se sei morto…ecco, allora, questa grande, clamorosa indifferenza dell’Universo…io la chiamo dio. Che come nome è anche più breve, no?”
(C. Guzzanti, Padre Pizzarro)

Questo non è per sminuire il dolore e la fatica di nessuno, ma per rimetterla in prospettiva. È una battaglia in primis solitaria, contro la solitudine che ci attanaglia il cuore, contro la noia che ci mangia vivi, contro i muri che si fanno via via più stretti. Io avrei pure spazio per camminare, ma scelgo di osservare una quarantena quasi italiana. Non compilo l’autocertificazione, ma poco ci manca.

Questo perché io sono la persona che sono. Per questo non mi sento di giudicare gli altri, per questo sto tenendo dentro di me la frustrazione, lasciandola uscire a brevi colpi con poche persone selezionate. Non sarà salutare, probabilmente, ma è come ho sempre vissuto. Tutto va bene, a nessuno gliene frega dei tuoi drammi interiori – e poi non è nemmeno vero, ho la fortuna di essere circondato di persone che mi ascolterebbero pure, ma sono una persona che si fa scrupoli a suonare un campanello e piuttosto rimane 15 minuti fuori dalla porta, ti pare che ti carico dei miei problemi? L’ho fatto in passato, mi è bastato.

Se c’è una cosa che questa pandemia ci insegna, però, è che dipendiamo molto più dagli altri di quanto pensiamo. Le chiamate skype, le ore perse a messaggiare, i piccoli aggiornamenti quotidiani, ci ancorano alla realtà, pur essendo solo un palliativo, il metadone alla quella potente droga chiamata affetto. Allora spero che, se non a livello collettivo, almeno a livello personale impariamo a darci meno per scontati e a curarci dei nostri affetti.

Se c’è una cosa che sto imparando, è che è facile e figo fare il misantropo quando hai la possibilità di scegliere, ma è molto più difficile quando la scelta ti viene negata.

Una cosa di cui sono grato è di aver rilanciato questo spazio. Mi sono abituato all’idea di non avere chissà che talento (e nemmeno pazienza) per la scrittura, però dipanare i pensieri sul foglio mi aiuta. Anche se poi prendono vita e si avvinghiano come bisce attorno ai concetti che vorrei trasmettere, anche se mi sembra di non andare mai abbastanza in profondità. Vero è che, coi polmoni da fumatore che mi ritrovo, l’apnea non è sicuramente l’attività più indicata. E già che quest’ondata scura ci sta trascinando sotto un po’ tutti, forse è meglio restare un po’ più verso dove si tocca.
U.T., Berlin, 17/04/2020

There are those who say that we will get out of this situation as better people.
In my humble opinion, those who say it are high as kites.
If there something that has proven to be absolutely useless in teaching something to humankind, it’s a general calamity.
While personal trauma may be productive, in any case laying the groundwork for change, the present situation allows us to share this feeling of doom without owning it. Tragedy hits everybody and therefore no one.

I place myself firmly inside this pattern; that’s why I’m grateful for all the people that everyday fight back against those horrible motivational posters, reminding us that just because we spend more time at home, we shouldn’t necessarily be more productive.
Sure, lying in bed all day long might not be a great idea; thankfully, I keep myself busy working my 8 hours a day. Then, when darkness falls and I disconnect my pc, I usually don’t feel like doing much. If I take refuge in my books, it’s because I’ve always been passionate about reading; if I cook, it’s because it relaxes me (and I’m hungry); if I binge watch tv series, it’s because I need to shut down my brain.
This is not a divine test to pass.

The high wave doesn’t bring you down to see how good you’re at swimming; the virus doesn’t care if you acquire new skills.
I am constantly getting angry at those that say that it’s “the Earth revolting against us”. For fuck’s sake. It’s a system that should have been heavily improved (if not brought down completely) showing all its weakness against the devastating power of a universe that ignores us.

“…it’s in that moment I perceived how Nature, the Universe, the leaves, the rocks…don’t give a fuck about you, if you feel fine, if you feel bad, if you’re happy, if you’re suffering, if you’re alive or dead…well, then, this huge, astonishing indifference by the Universe…I call it god. It’s shorter name, isn’t it?”
(C. Guzzanti, Padre Pizzarro)


This is not to underestimate anyone’s sorrow and pain, but to put them into perspective. It’s first a solitary battle, against the loneliness that hits our hearts, against the boredom that eats us alive, against the walls that get closer and closer. I would have room to walk, but I choose to observe an almost Italian quarantine. I’m not filling out forms, but I’m almost there.

This is just because I am me. This is the reason why I don’t feel like judging other people, why I keep my frustration bottled up inside, and let it out only briefly with very few people. It won’t be healthy, but this is how I’ve always lived. Everything’s fine, nobody cares about your drama – untrue, I’m lucky enough to be surrounded by people who do in fact care, but I’m that person that will wait 15 minutes out of the door rather than ring the doorbell, do you really think I’ll talk about my issues? I did, once, and that was enough.

If there’s a lesson to be learnt from this pandemic, it’s that we all depend from the others much more than we usually admit. The Skype calls, the hours spent texting, the little everyday updates anchor us to reality, even though they’re a weak substitute, the methadone to that powerful drug called affection. Therefore, I hope that, if not on a collective level, at least personally we all learn to care more for the people we love and not to take them for granted.

If there’s something I’m learning, is that it’s very cool to play the misanthrope when given the possibility to stop. Harder when you have no choice.

I’m happy to have rekindled this project. I’ve got used to the fact that I’m not particularly talented (and that I don’t have enough patience) for writing, but writing down my thoughts helps. Even though they then become alive and get twisted like snakes around the concepts I want to get through, even though I feel like I never get deep enough. True, with my smoker’s lungs, deep diving is not the most recommended hobby. And with this black wave taking us all down, maybe it’s best to keep closer to the shallow end.
(Translation by the author)

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Corona chronicles 5

Corona Chronicles 05-12/04

Non avrei mai pensato di ritrovarmi all’interno di una dinamica di assedio, di nuovo, nella mia vita. Sarebbe molto importante che le persone capissero che per quanto questa situazione sia dura non è Sarajevo non è Srebrenica.
U., Italy, 5/04/20

(I never would have thought I’d find myself in a siege dynamic, again, in my life. It would be very important if people could understand that this situation is no Sarajevo or Srebrenica, no matter how hard it gets)

Ho il collo in tensione, a ricordarmi che, nonostante i miei proclami di aver trovato la mia “dimensione” (espressione che odio per motivi personali), neanche io me la sto vivendo bene. Come nella battuta che citava il filosofo Žižek da un vecchio film:
– Vorrei un caffé senza panna.
– Abbiamo finito la panna, va bene lo stesso un caffè senza latte?
non mi pesa lo stare a casa, davanti al computer o a letto a leggere; erano tra le mie attività più comuni anche prima del casino, non ero il tipo che si va ad iscrivere a mille corsi, fa mille attività, si dà anima e corpo a qualche hobby; tuttalpiù andavo a bere una birretta con qualche amico e ci facevamo una chiacchierata, grande e vera passione della mia vita.
Ora pure questo mi è precluso, non ho alternative, e rimango seduto al tavolino ad aspettare un caffé senza latte, quando io lo volevo senza panna.

La vita è ‘na guera, sì la vita è ‘na battaja
La vita è ‘na guera, e cade pure chi nun sbaja


Un amico ieri si chiedeva su Instagram come diavolo facesse tutta sta gente ad essere così ottimista in questa situazione.
Io gli ho risposto che nel migliore dei casi sono dei cretini, nel peggiore degli ecofascisti.
La realtà è ovviamente più complessa, ma non era mia intenzione rendergli onore su un social network; la verità è che la situazione è sconfortante e meritevole di speranza allo stesso tempo. Sconfortante perché assistiamo alle solite pagliacciate di chi, col culo più o meno al coperto, vorrebbe far riaprire tutto per fermare l’emorragia economica; nel frattempo, la gente si trova di fronte al dilemma: morire di fame o di COVID 19? E noi siamo un paese ricco. Figuratevi gli altri. Un paese intelligente – o quantomeno, un sistema giusto – dovrebbe perlomeno fornire una terza opzione, tra il dilapidare il proprio patrimonio e l’ammalarsi.
Siamo in emergenza, ma pare che non se ne renda conto nessuno, fuori dagli ospedali.
Merita speranza perché nonostante tutto, ne usciremo e la gente si sta sempre più rendendo conto che le cose non vanno bene così.

La vita è ‘na guera che tutti dovemo fà
La vita è ‘na guera, nessun se po’ negà


A questo proposito, sono entrato nella terza settimana di lavoro da casa. Ho uno schermo extra, mangio in maniera più regolare (anche se crearsi un menù settimanale e seguirlo è dura!) e riesco più o meno a dormire le ore giuste la notte.
Non sono proprio entusiasta di questa situazione, vorrei non lavorare dove dormo, ma tertium non datur: o in ufficio o in camera mia.
Per fortuna pare che alcuni dei problemi di connessione, che tanto mi facevano soffrire, si siano risolti con l’uso di un cavo LAN. Martedì si verifica se funziona.

Ieri ho celebrato quest’importante ricorrenza cristiana coi miei coinquilini: una berlinese che ha visto cadere il muro quando aveva 15 anni e un ragazzo indiano che mi ha chiesto cosa fosse la pasqua. Per la prima volta ci siamo riuniti attorno a una tavola e abbiamo cenato insieme.
Ho passato letteralmente tutto il pomeriggio a preparare il pasticcio (sì, da noi le lasagne si chiamano così) col ragù vegano e i funghi. Io c’ho gli standard alti e non sono rimasto particolarmente soddisfatto, i miei coinquilini parevano entusiasti.
Prossima volta si migliorerà.
Avanti così: pessimisti con la ragione, ottimisti con la volontà.

La vita è ‘na guera, ma pure se ‘n faccia te sputa
… rimane degna sempre d’esse vissuta!

(Ugo, Berlin, 12/04/20)

My neck hurts, reminding me that, despite my claims of having found my “space”, this is not great – to use a euphemism. As in the joke coming from an old movie quoted by Žižek, the philosopher:
– I’d like a coffee without cream, please.
– We ran out of cream, sir, would you like a coffee without milk instead?
it’s not the staying in that frustrates me, reading a book or sitting in front of the computer; those were my most common activities even before, I’ve never been a guy that goes out of his way to attend courses, participate in stuff, has a thousand hobbies; I would usually rather go have a beer with a friend and chat the time away, talking being that the one true thing I’m really passionate about.
Now I’m precluded even from that, I have no alternatives, and I’m stuck waiting a coffee without milk, when I wanted it without cream.

Life’s a war, yeah life’s a battle
Life’s a war, and one falls even without making mistakes


A friend yesterday was wondering how all these people can be so damn optimist about the situation.
I told him that best case scenario they’re idiots; worst case they’re ecofascists.
Reality is of course more complex than that, but it was not my intention to honour them of a lengthy discussion on a social network; truth is, the situation is both disheartening and hopeful. Disheartening because we’re witnessing the same old shit by people who are safe that would like to reopen everything in order to keep on earning; in the meantime, people are faced with a horrible choice: die of hunger or of the virus? And we live in the rich countries. Imagine the rest of the world. A clever country – a fair system, if one exists – should at least provide a third option, an alternative to both wasting all one’s savings and getting sick.
But it looks like no one outside of the hospitals realises that we’re in an emergency.
Hopeful because more and more people are realising that things are not great and were not good to begin with.

Life’s a war we all have to serve in
Life’s a war, and no one can escape from it

About that, I entered my third week of working from home. I have an extra screen, I eat regularly (though following a weekly schedule is hard!) and I manage to rest enough, more or less.
I’m not really enthused by this situation as a whole, I’d rather not work in the same room I sleep in, but tertium non datur: either go to the office or work from my bedroom.
Luckily, it looks like some problems with the connection have been solved. It was a real pain for me, but the new LAN cable seems to be working. Tuesday we’ll see how it goes.

Yesterday I celebrated this Christian festival by having dinner with my flatmates: a woman from Berlin that was fifteen when the wall came down and an Indian guy who asked what was Easter. For the first time we ate together, sitting at the same table.
I literally spent the whole afternoon cooking a lasagna with vegan bolognaise and mushrooms. I have high standards and wasn’t very satisfied with the results, but they liked it nonetheless.
Next time it will be better.
Onwards, pessimism of the intellect, optimism of the will.

Life is a war, but even if it spits in your face
… it still deserves to be lived!
(translation by Ugo)

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Corona chronicles 4

Corona Chronicles 28/03-04/04

Questa quarantena ci fa trovare lo spazio per cose che prima si prima si rimandavano perché “non si aveva tempo”. Così oggi sono andata a trovare A. Lei abita al piano terra del mio palazzo e a maggio compie 87 anni. Le lascio un po’ di spesa e lei mi dà una pera, tre merendine e un po’ di tovaglioli per ricambiare. Come capita sempre quando vado a trovarla, A. Mi mostra i suoi ricordi, che sono principalmente foto e cartoline che le persone le hanno mandato nel corso degli anni. La foto che mi ha colpito di più è di lei a 28 anni con suo fratello e sua sorella, una foto del 1941. La vita non è stata clemente con lei. È stata “adottata” dalla famiglia del marito che è morto 21 anni fa di tumore, ma che stava già male da molto tempo. Non ha mai avuto figli a causa di fibromi. Le è rimasta una sorella, che vive negli Stati Uniti. Mi fa vedere le cartoline di una coppia che abitava nel palazzo, Giampaolo e Biagio, che dal 2007 al 2013 le hanno mandato cartoline da tutto il mondo. Biagio la chiama la sua principessa e la prende in giro per come cucinava. Giampaolo, più composto, le racconta dei luoghi che hanno visitato. Mentre mi mostra queste cose, lascia tutto in disordine, come se fosse contenta, poi dopo di avere qualcosa da fare, di poter rimettere tutto a posto. A. mi dice che la nipote l’ha riempita di ansie, dicendole di non uscire assolutamente per nessun motivo e lei mi dice: “Ho 87 anni Laura, che altro potrei fare se non uscire?”.
Lo so perché le mie visite sono state sempre più sporadiche e perché non avevo tempo per passare a trovarla. Perché A. si ricorda tutto e mi ricorda tutto. Di quello che è successo quando mia madre si è ammalata e quando ha incominciato sistematicamente ad allontare tutte quelle persone che aveva intorno che le volevano bene. E questo è faticoso. “Che dici, quando tutto questo sarà finito, riusciremo a vederci tutti insieme? Potrò venire a vedere tu madre?”.
Dopo mi racconta di suo padre.
“Mio padre era cattivo, era un fascista. Quando mia madre ha avuto il tumore al cervello, a 45 anni, ed era in ospedale, lui aveva già un’altra e non sai quanto abbiamo sofferto io e i miei fratelli per mano sua. Io l’ho visto il fascismo. Andavamo dai preti per mangiare la minestra. Mia nonna abitava in via Carlo Felice e da lì abbiamo visto i tedeschi scappare e gli americani arrivare.”
Quando me ne devo andare mi infila 20 euro in mano che io negozio a 10 e mi ringrazia come la figlia che non ha mai avuto. Io me ne vado con un nodo alla gola, senza riuscire a dirle che lei per me è la nonna che non ho mai avuto.
L. Roma, 29/03/2020

Pensa le stranezze della vita da domani inizio a lavorare full time in una fabbrica…
E la cosa più buffa è la mia mansione ovvero “misuratrice di febbre ai visitatori e dipendenti”
A., Italy, 30/03/20

Non avrei mai pensato di ritrovarmi la domenica mattina bella pimpante a fare la parmigiana di melanzane. Ho sempre pensato che la parmigiana di melanzane fosse un piatto che fanno solo le nonnine o che si trova al ristorante e che la domenica mattina fosse fatta per dormire.

Soprattutto non avrei mai pensato di trovarmi a scrivere, un lunedì sera, su un divano rosso, il penultimo giorno di marzo, quando fino a poche ore fa nevicava. I fiocchi che scendevano non erano freddi, erano però bianchi e grossi. Non avrei mai pensato di ritrovarmi in una situazione del genere, così surreale. Nessuno poteva saperlo, nessuno lo sapeva. 

Più vivo queste giornate più mi vedo in un futuro lontano, in una bolla di sapone, ad aprire un libro di storia di quinta elementare, dove in uno degli ultimi capitoli viene analizzato proprio questo bizzarro periodo storico, che verrà narrato in maniera scientifica, forse con un presente storico, che chissà se esprimerà un’epoca conclusa o ancora contemporanea…In quel futuro poco nitido e sfocato, mi vedo. La “io” di 35 anni è sempre la stessa di quella che immaginavo come quando ero bambina. Un maglione rosso, un sorriso smagliante e lunghi capelli scuri, sani e forti. Si vede che quando ero piccola non sapevo quanto fosse difficile curare i capelli, stare dietro alle doppie punte e alle macchie lasciate dal mio tè nero preferito proveniente da Singapore. Questa me, racconta con gioia negli occhi, ma cercando di celare la voce quasi strozzata a sua figlia che “mamma c’era”. Un po’ come quando passando per Piazza Fontana a Milano la mia di mamma mi raccontava dove era lei quel lontano 12 dicembre 1969. Così farò io, tra più di cinque e meno di otto anni. Racconterò a mia figlia, o alle bimbe gemelle della vicina di casa, qualcosa di più vissuto rispetto a quello che si legge su un libro di storia. Magari non saprò dire loro il numero esatto dei morti che avrà causato questa epidemia, ma saprò raccontare loro cosa è successo a partire dal marzo 2020. E quello che racconterò io sarà diverso da quello che racconteranno gli altri vicini sempre a queste due gemelle, che ascoltano e si chiederanno come mai al quarto piano l’hanno vissuta meglio rispetto che al primo.
S., Berlin, 30/03/20

Lockdown breakups
My boyfriend’s lack of communication never really stood out to me, or I just brushed it off with the usual excuse that that’s just how straight men are. It was only when my friends remarked “but surely you’re videochatting all the time now?” that I realised we hadn’t exactly talked since we got stuck on opposite sides of a closed border.
A., Belgium, 01/04/20

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Corona chronicles 3

Corona Chronicles 23-27/03

Ma il fatto più brutto, ci pensavo oggi, non è tanto il non uscire. Sino a che sto a casa riesco ad illudermi che sia tutto okay, che ho solo visto un film particolarmente sconvolgente che mi ha lasciata con l’amaro in bocca. No il problema è proprio quando esci e vedi la città immobile, come in una foto. Una foto in bianco e nero per colpa di questo freddo e questa nebbia.
– Riflessioni mentre vado a comprare la verdura
I., Italy, 27/03/20

“Dio sarà annoiato.”
Nonna di M., Italy, 27/03/20

Ormai è una settimana o quasi che non esco.
Complice una spesa azzeccata e assennata, l’aver ridotto il consumo di sigarette (a circa 4-5 al giorno, il necessario per affrontare la giornata di lavoro) e al non dovermi più recare in ufficio.

Son quasi sette giorni che non esco e ancora tengo botta. Vediamo quanto dura, tra qualche giorno devo uscire a fare la spesa.
Ora qui chiedono documenti e Anmeldung – la registrazione del domicilio, una sorta di prova di indirizzo di casa – se ti fermano per strada.
A me questa cosa provoca un fastidio mortale.
Mi fa proprio sentire le gambe pesanti e limita notevolmente la mia voglia di uscire, che già non era molta.

Sono due settimane che non ho contatti con persone aldifuori del mio nucleo familiare. Ultima doveva essere Á., ma ai primi divieti abbiamo deciso di lasciar perdere. Á. era un po’ in ansia per la situazione e per il virus; non che la mia ipocondria di base mi stesse facendo vivere tanto meglio la situazione.
Un peccato, mi mancano il suo accento e la sua logorrea, che riusciva a far tacere pure me. Ci ubriacheremo di brutto quando sarà finito tutto (e con Á. ho idea che si andrà su di grado per bene…)

Continuo a sentire con molto piacere e con molta frequenza U., che lavora in ospedale, ne sa a pacchi e ha piacere a parlare. Io pure. Mi aiuta.
Ho sentito anche molta altra gente che non sentivo da tempo e amici che avevo visto recentemente in Italia, ma che è sempre bello vedere. Ho pure bevuto in compagnia dei colleghi su Zoom.

Sto lavorando da casa. La cosa mi crea un po’ di ansia e frustrazione, ma per il momento è gestibile. Inoltre, con le regole tedesche, volendo potrei recarmi anche in ufficio, ma per sicurezza mia personale e motivi vari (vedi sopra) per il momento evito.

Sono fortunato ad aver avuto un’adolescenza un po’ di merda che mi ha portato a stare tanto su internet piuttosto che fuori. Capiamoci, uscivo lo stesso, ma ero il timidone, quello sfigatello che non è il primo che ti viene in mente da chiamare per far festa e quindi tanti pomeriggi li ho passati a casa. Prima coi libri, poi con internet. Il primo blog risale alla prima superiore ed è un bene che sia perduto per sempre nel mare magnum di internet.
Vediamo quanto va avanti sta regressione. Circa tredici anni fa mi ero fatto i capelli blu per Halloween, chissà che non torni lo schizzo di fare esperimenti.

Ho finito di leggere Il Pendolo di Foucault di Umberto Eco. Bello, interessante, consigliato. Lo sconsiglio a chi si prende male coi complotti. Una volta finiti un paio di racconti di Pullman, penso partirò a leggere un po’ di teoria politica, magari prima di riprendere in mano Tolkien. Ho tutta la bibliografia, potrei fare così: politica-Tolkien-politica-Tolkien, finché non mi rompo le scatole. Vi farò sapere come va.
Ugo, Berlin, 26/03/2020

It’s been more or less a week since I last went out.
Thanks to a nicely planned grocery shopping expedition, having reduced the tobacco consumption (4-5 a day, the bare minimum to face the day) and not having to go to the office anymore.

It’s been almost seven days and I’m still ok. Let’s see how long it lasts, I’ll have to go shopping soon.
If they stop you, they’ll ask you for your ID and the Anmeldung – the proof of address.
This bothers me a lot.
It makes my legs go heavy and severely impacts on my will to go out, not that it was great even before.

It’s been two weeks since I last had contacts with people outside of my “family” unit. The last one should have been Á., but facing the first restrictions we decided not to. Á. Was a bit anxious about the whole situation; my lowkey hypochondria wasn’t helping either.
A pity, I miss her accent and her being so talkative, she could make me shut up. We’ll get gloriously drunk when this all will end (and with Á. I feel like that it’s gonna be heavy…)

I keep in frequent contact with U., who works at the hospital, he’s very knowledgeable on these matters and likes talking. Me too. It helps.
I contacted also a lot of people I hadn’t seen since forever and some friends I had seen more recently, but it always feels good to see them. I even had a drink with colleagues on Zoom.

I’ve started working from home. This is giving me some anxiety and making me frustrated, but it’s manageable so far. I could go to the office according to the German rules, but for my personal safety and various reasons (see above) I’m not going for now.

I was lucky I didn’t spend my teenage years quite brilliantly and that meant I spent a lot of time on the internet rather than outside. I mean, I would still go out, had a social life and everything, but bottom line, I was still the shy one, the one who’s not your first choice of who to invite over for a party and so spent a lot of afternoons at home. First with books, then with the internet. I started my first blog at 14 and a good thing is it is buried by time and dust.
Let’s see how this regression goes. More or less 13 years ago, I dyed my hair blue for Halloween, let’s see if I start experimenting again.

I just finished reading Foucault’s Pendulum by Umberto Eco. Very good, interesting, recommended. Maybe not recommended to people who get freaked out by conspiracy theories. Once I finish a couple short stories by Pullman, I think I’ll start reading politics again, before starting Tolkien again. I’ve got the bibliography, I could go like this: politics-Tolkien-politics-Tolkien until I get bored. I’ll let you know how it goes.
(Translation by Ugo)

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Corona chronicles 2

Corona Chronicles 18-22/03

Al termine di questa prima settimana di quarantena, mi è tornato in mente un saggio intitolato “La legge di Parkinson”. L’autore sostiene che il lavoro si espanda fino a occupare tutto il tempo disponibile. In altre parole, “più tempo a disposizione si avrà, più se ne sprecherà”. Ma è vero anche il contrario: quando il tempo scarseggia, chi lavora lo fa con maggiore efficacia, motivato dal rischio di non riuscire a completare un compito a scadenza ravvicinata, con la prospettiva di possibili conseguenze negative.
     Un minuto fa ero al telefono con una mia amica, e le raccontavo che in questo periodo non mi sento affatto produttiva. Citando testualmente, più tempo ho a disposizione, più ho voglia di non fare un cazzo.
      Perché effetti, anche se sono costretta a casa, non è che sia a corto cose da fare: le lezioni dell’università sono ancora in corso, rigorosamente su Zoom; ho la fortuna di poter lavorare interamente online; i miei coinquilini sono corsi via non appena ne hanno avuto la possibilità, quindi anche la cucina è a mia completa disposizione; potrei preparare crostate, fare esercizi a corpo libero, organizzare aperitivi via Skype, portarmi avanti con lo studio, o decidere di riprendere in mano lo spagnolo/il tedesco. E invece faccio poco e niente.
Spero che “La legge di Parkinson” possa aiutare anche qualcun altro a sentirsi un po’ meno in colpa
P., Italy, 18/03

My first week of quarantine has come to an end, and it was high time that I grabbed “The Parkinson’s Law” off the shelf. What its author says is that work expands to fill the time available for its completion. In other words, people usually take all the time allotted to accomplish any task. But the opposite is also true: if we had just a few hours to carry out a task, we would make the most out of them, and we would probably accomplish the same result as if we had had an entire day (or week) to do it.
     One minute ago I was on the phone with a friend, and I was complaining about how unproductive (and even counterproductive) my week had been. To quote myself, the more time I have, the less I manage to get my shit done.
  Because actually, even though I’m home all the time, I (theoretically) have tons of things to do: I still have uni classes; I’m lucky enough to have an online job; I have a whole flat all to myself (my flatmates ran away as soon as they had a chance to); I could bake, workout, brush up on my Spanish/German, set up Skype dinners with my friends, and so on and so forth. And yet, here I am.
      I hope that “The Parkinson’s Law” is going to help someone else feel a bit less bad
(English translation by the author)

Sara

La quarantena non ci insegnerà nulla e vale poco un lenzuolo con l’arcobaleno del “tutto andrà bene”. Bambina di marzo ci servono i tuoi occhi, figlia di questo tempo incredibile. Le carceri in rivolta tacciono di già, adesso è tempo di bare dentro mezzi dell’esercito. Bergamo non sarà mai Aleppo, da queste parti non impareremo mai nulla. Tutto tornerà a correre prima o poi. Vorrei vederti crescere per poterti raccontare cos’è stato del tempo dei tuoi primi giorni, quando non si poteva che lavorare, mangiare e rimanere nelle nostre case.
Non c’è statistica, non ci sono previsioni, nessuno sa cosa ne sarà di questo tempo ma quello che so è che l’inaspettato molto spesso è il preludio della vita vera.
Bambina di marzo duemilaventi, mi piacerebbe portarti sulle montagne che vedi da casa, quelle che tu ora non puoi sapere, che manco desideri.
Bambina di marzo duemilaventi. Nata in quarantena come un fiore fuori stagione, come la neve di primavera. Figlia di uomini forti ho il privilegio di vederti in questo tempo di privazioni.

Sei di una serenità che disarma. Poi tuo padre prepara il pane della festa, uno sguardo felice verso di me : “lavati le mani adesso!”. Eseguo dunque la norma di igiene e con la cautela di rispettare la distanza del metro e mezzo torno al tavolo. Ecco quel pane tondo: “spezzalo con le mani, da noi si fa così quando è festa”. Stavano tutti pregando.
Cinque uomini, una candela accesa, un pezzo di pane e qualche icona di santi sullo sfondo. Ci si capisce sempre poco a parole ma quanto pesano certi gesti.

Bambina di marzo duemilaventi, sei tanto bella e quando questa finta libertà ti diventerà più vera faremo una grande festa. Per te e per chi ti ha messo al mondo. Gente più forte di noi.
“Sei preoccupato per il virus?”, così mi guarda con il suo sguardo gentile “ la prigione è paura, virus passa!”

Dovrei pensarci più spesso, non siamo ad Aleppo.
G., Italy, 20/03

Quarantena, dodicesimo giorno.
Comincio a sentire il peso dell’assoluta mancanza di contatto fisico. E della prossimità con, per l’appunto, il prossimo. Che non è più prossimo per nulla. Mi chiedo se sia questo assottigliarsi delle relazioni che vivono le persone costrette ai domiciliari, per mesi e mesi, magari in una casa come la mia, dove la luce è poca e il panorama non lascia vagare lo sguardo. Mi chiedo se questo potrà mutare, almeno un po’, lo sguardo sociale sulla detenzione. Ma poi leggo delle rivolte nelle carceri, delle morti e delle (non) reazioni e mi dico che no, non sarà quest’esperienza a farlo succedere. Ma in fondo non lo so, che il “dopo” è un mistero, umano e sociale. Cosa resteeeeraaaa della quaaaraaantena, sulle note di Raf e degli anni ’80, la mia personale hit del momento, assieme ovviamente a “io sto bene” dell’ormai compianto Giovanni Lindo. E mi ricordo che la scrisse pensando ad un suo utente in psichiatria e così ritornano le istituzioni totali. Una specie di anello chiuso, come i due giri attorno all’isolato che faccio quando esco a far la spesa o a buttare le scovazze, sperando di non incappare in una pattuglia, che mentre le fabbriche non chiudono e Amazon moltiplica le spedizioni, passeggiare 20 minuti non si può più. La naturalizzazione del capitalismo e l’individualizzazione della colpa, che però curiosamente non riguarda lo shopping on line. Dopo carcerati, psichiatrizzati e migranti, fu così che anche i corrieri diventarono non-persone. Mentre la quarantena continua, la mia naspi scivola via e nessuno pensa di inserire la questione tra quelle su cui “discutere” a colpi di decreti. Intanto da lunedì torna l’inverno. Del nostro scontento.
Asia, Italy, 20/03

Ciao caro.
Non so bene perché ti sto scrivendo.Non l’avrei fatto se non avessi sentito il bisogno di sfogarmi.
Per cui forse ha più senso se ci sentiamo per telefono 🙂
Ciao
D., Italy, 20/03

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Corona Chronicles 1


Corona chronicles 1 – 16-17/03/2020

“In questi giorni sto leggendo come non mi capitava da qualche tempo. Con gusto, con passione.
Non sono un così grande appassionato di aria aperta, non dovrebbe pesarmi troppo. Invece la mancanza di scelta ogni tanto mi opprime.
Per questo domenica, visto che qui si può, sono andato fino al monumento dei caduti, a fare una passeggiata e a leggere all’aria aperta.
Era pieno di gente. Ovunque, è pieno di gente. Pare che non se ne rendano conto o non vogliano fare i conti con la realtà. Chissà quanto durerà.
Nel frattempo, una mia collega mi ha gentilmente incluso nel suo pacchetto Netflix. Gli dèi benedicano la generosità polacca under 30.”
Ugo Tovil, Berlino 16/03/2020

“A parte per il fatto di avere mia madre sempre tra le palle con problemi informatici costanti che devo risolvere pena la terza guerra mondiale tra la cucina e lo studio, questa quarantena non ha particolare cesura rispetto alle mie normali giornate da sociopatico galoppante”
Peko Dapčević, 16/03

“Quien diría que perdería
Mi bicicleta
En una revolución hace falta
Pedalear.
Quien diría que perdería
A mi abuelo
Sin un porqué
Como se pierde una palabra.
Quien diría
Que una ola de miedo y enfermedad me atraparía
Entre tus brazos.
Cobijo y calma
Mientras todo a mi alrededor es caos.”
M., Siviglia 17/03

“Básicamente no me importaría estar en cuarentena pr aquí no van a hacer una MIERDA y vamos a morir TOS
Pero mi madre aprovecha desde Gran Canaria para obligarme a llamarla sólo por el virus
Aunq no quiera hablar con ella y eso es lo que me mata”
Frustrada de casa, UK, 17/03

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