Old Friends/Bookends

Italiano sotto

Can you imagine us years from today
Sharing a park bench quietly?

It takes me a while to reach the bench.
Roman has, unsurprisingly, not showed up yet.

Berlin has changed so much since our youth days. The city where we celebrated our thirtieth birthday has undergone immense changes.
We got here late, already children of the housing crisis. One of my favourite hobbies was helping people move – and Roman provided much much entertainment in that regard.

I’m no stranger to waiting. As Stefano Benni famously said, “La vita di un puntuale è un inferno di solitudini immeritate” (the life of a punctual person is a hell made of undeserved loneliness). I don’t believe in hell, or heaven for that matter, and I’m not afraid of what comes next, mildly curious more like. But I do think I have built up a sizeable retirement fund of good karma by waiting over the years.

A full troop of sparrows has decided to perch on the lonely branch above my bench. I move a little; already many years ago the birds in this city were louder than anywhere else – you can imagine what other changes the disaster has wrought in the past decades, and I like this shirt.

Many of my Berlin firsts I owe to Roman: the first lake day; the first adventure outside the city (followed by the first deer tick bite and the first visit to the Vivantes hospital in Friedrichshain, such a beautiful brick structure surrounded by the green of the Volkspark Friedrichshain…); the first time I transported a piece of furniture on public transport.
It was a hot August day and I needed a table; Roman’s household had one in the cellar that nobody used. We took it to the station and put it on the Ringbahn. A German lady tried to tell us off, only for us to get more annoyingly Italian at her in our chatting the afternoon away.

My back hurts already at the thought of doing something like that again.

Where can that man be? Tardiness is one thing, a 40 minutes delay is something rather more serious, when you’re no longer young. I’m getting slightly worried, as I always do and have always done throughout my life. But Roman usually does show up, so I allow myself a little faith.

Roman was also the first to take me to a techno club. My friend Anna was visiting and we took the opportunity to try with a low-difficulty club I’ve now been boycotting for years (on top of not being fond of techno music anymore). We heard the place was run by German leftists and we adorned our jackets with Lenin pills (Roman) and a “Refugees welcome” sticker in Arabic (I) to enhance our chances to get in.
Anna didn’t need such help – this just goes to show how good looks are always a factor, no matter how radical the place. (And this place has let us down so badly in the years that followed those first ventures…)

We both survived the pandemic, hiding in our apartments and visiting each other as much as we could, over the weekends. Late night chats that sometimes became sleepovers, that was the city’s pastime back then. We kept each other company, despite rules and regulations – despite our very different outlooks on the whole situation and the political solutions brought forward. Sharing until late night a beer, a cider, or a wine, discussing politics, music, and heartbreak.
Almost like one of those cheesy American movies about young adults pouring their heart out to each other on a New York roofotop. Only, inside an anonymous flat on a cold, grey night, in Lichtenberg.

I’m dozing off now…I’m sure he’ll be here soon. He promised. The sun is quite nice, for a change. The air smells sweet. He won’t be long. He never is, in the grand scheme of things. He’ll join me on this bench, and we’ll yell at the youngsters, like when we used to mock high schoolers running in the park in the days before we started university. We’ll discuss some war or some political event. He’ll curse again the name of a long-forgotten German Healthcare minister. I’ll get pissy about the current state of affairs. I think I hear him now…
We’ll yell at some young punk…in this warm little corner of Berlin.

Time it was,
And what a time it was
It was . . .
A time of innocence
A time of confidences
(Simon & Garfunkel, Old Friends/Bookends)


Can you imagine us years from today
Sharing a park bench quietly?

Ci metto un po’ a raggiungere la panchina.
Roman, come previsto, non è ancora arrivato.

Berlino è cambiata molto dai tempi della nostra giovinezza. La città in cui abbiamo celebrato i nostri trent’anni è cambiata radicalmente.
Noi siamo arrivati tardi, già figli della crisi immobiliare. Uno dei miei hobby preferiti era aiutare gli amici nei traslochi; Roman sotto quest’aspetto è sempre stato uno spasso.

Sono abituato ad aspettare. Come disse Stefano Benni, “La vita di un puntuale è un inferno di solitudini immeritate”. Io all’inferno non ci credo, neppure al paradiso se per quello, e non ho paura di ciò che mi attende dopo, anzi, ho un po’ di curiosità. Ma di sicuro ho messo via un bel fondo pensionistico di buon karma a furia di aspettare negli anni.

Una truppa di passerotti si è piazzata sul solitario ramo sopra la mia panchina. Mi sposto un po’. Già anni fa gli uccelli di questa città cinguettavano a un volume più alto di qualsiasi altra capitale. Posso solo immaginare che altri cambiamenti abbia apportato il disastro in questi ultimi decenni, e poi questa camicia mi piace.

Devo a Roman molte delle mie prime esperienze a Berlino: la prima giornata al lago; la prima avventura fuori città (con conseguente prima zecca e prima visita all’ospedale Vivantes, una splendida struttura in mattoni circondata dal verde del Volkspark Friedrichshain); la prima volta che ho trasportato un mobile su un mezzo pubblico.
Era una calda giornata d’agosto e io avevo bisogno di un tavolo; a casa di Roman ce n’era uno in cantina che nessuno usava. Lo portammo in stazione e caricammo sulla Ringbahn. Una signora tedesca tentò di rimproverarci; noi ci vendicammo alzando il volume delle nostre chiacchiere in italiano mentre attendevamo arrivasse la nostra fermata.

Mi fa male la schiena soltanto a pensare di rifare una cosa del genere.

Dove si sarà cacciato? Un conto è essere ritardatari, 40 minuti di ritardo è un affare ben più serio, quando non si è più giovani. Inizio a preoccuparmi un po’, come ho sempre fatto e sempre farò nella mia vita. Ma Roman di solito alla fine compare, quindi mi concedo di avere un po’ di fede in lui.

Roman mi portò per la prima volta in un club techno. La mia amica Anna era in visita e cogliemmo l’occasione di provare ad entrare in un locale a bassa difficoltà, che ora boicotto da anni (oltre ad aver smesso di apprezzare la techno). Avevamo saputo che il posto era gestito da gente di sinistra tedesca e perciò avevamo adornato le giacche con una spilletta di Lenin (Roman) e un adesivo che diceva in arabo “Refugees welcome” (io) per aumentare le nostre chance di entrare.
Anna non ebbe bisogno di simili sotterfugi – a riprova che il look giusto ti spalanca qualsiasi porta, non importa quanto il contesto sia radicale (e questo posto ci deluse amaramente negli anni che seguirono…)

Siamo sopravvissuti alla pandemia, rintanandoci nei nostri appartamenti e facendoci visita a vicenda quanto più possibile, di solito nei weekend. Le chiacchierate diventavano a volte delle nottate intere, un passatempo comune in città a quei tempi. Ci tenevamo compagnia nonostante regole e decreti, e nonostante opinioni molto divergenti sulla situazione in generale e sulle risposte politiche. Fino a tarda notte con una birra, un sidro, un vino, a discutere di politica, di musica, di cuori infranti.
Quasi come quei filmetti americani in cui i giovani si incontrano, si scontrano e si sfogano al chiaro di luna sul tetto di un condominio di New York. Solo che noi eravamo dentro un anonimo appartamento in una fredda, grigia notte a Lichtenberg.

Sto prendendo sonno…sono sicuro arriverà presto. Me l’ha promesso. Si sta bene al sole, per una volta tanto. L’aria è dolce e profumata. Non ci metterà ancora molto. Non ci mette mai troppo, nel complesso. Mi raggiungerà su questa panchina e urleremo dietro ai giovinastri, come quando prendevamo in giro gli studenti che correvano al parco mentre noi aspettavamo di iniziare l’università. Ci metteremo a discutere di qualche guerra o di qualche evento politico. Lui maledirà ancora una volta il nome di un ministro della salute tedesco da tempo sepolto dalla storia. Io mi irriterò pensando a come va il mondo. Mi sembra di sentirlo arrivare…
Rimprovereremo qualche teppistello…in questo caldo cantuccio di Berlino.

Time it was,
And what a time it was
It was . . .
A time of innocence
A time of confidences

(Simon & Garfunkel, Old Friends/Bookends)

Insegnare non è cOoL

Abbiamo sete di sapere, vogliamo bere
Ce ne faremo un mestiere, perché sapere è potere

Assalti Frontali, Cattivi maestri

Generalmente – nei video comici che girano sui social, ad esempio, o nei discorsi superficiali al bar o alla cena di Natale – la categoria degli insegnanti è percepita come un blocco unico caratterizzato da passività, da un’ottusa perpetuazione di regole, nozioni, linguaggi e modalità imposte dall’alto e dalla conseguente cecità davanti ai problemi dei singoli alunni o alle necessità della società contemporanea.
Però, se si prova a chiedere a chiunque di ripensare, tra tutti gli insegnanti che ha avuto, a qualcuno che abbia lasciato un ricordo profondo e un’impronta nella sua vita, ne nominerà sicuramente uno o più. Spesso l’influenza di quella personalità, quel modo di insegnare o le scoperte fatte grazie a quell’insegnante continua nell’età adulta, e ripensarci non rimanda che a sensazioni piacevoli e alla consapevolezza di essere diventati chi si è anche grazie al contributo di quella persona.
Si delinea quindi immediatamente non più un blocco cieco e senza pietà di insegnanti da contraddire e deridere, ma una galassia di esperienze diverse, non prive di senso ed episodi formativi importanti.

Ok fine del pippone, mi serviva da introduzione a quello che in realtà volevo dire.

La questione è, ci interessa cercare di cambiare la rappresentazione della categoria degli insegnanti? Riconoscerne il ruolo chiave e la dignità, professionalmente e umanamente – dato che in questo lavoro le due cose vanno necessariamente insieme?
Secondo gli Assalti Frontali sì, e molte loro canzoni da un certo momento della loro storia in poi riguardano la scuola e il suo superpotere, quello di insegnare alle giovani menti gli strumenti per formarsi e andare nel mondo in modo autonomo e consapevole.
Un paio di mesi fa, durante un loro concerto in un paesino sperduto della campagna veneziana (ma con un festival con i controcazzi), con il loro parlare di scuola con grande rispetto e amore sono riusciti a commuovermi (ok è stata anche la sindrome premestruale, ma non importa), perché senza saperlo, in quel momento avevo un grande bisogno di discorsi del genere verso il mio lavoro.
Volenti o nolenti, insegnare non è solo una prestazione da svolgere; se fatto bene è anche una missione, e chi se ne fa carico ha bisogno di motivazione tanto quanto gli alunni che stanno dietro ai banchi.
E quindi la sera del concerto ha inaspettatamente scatenato delle riflessioni perché, anche se apparentemente non ci stavo pensando più, qualche giorno prima ero stata a un grande evento formativo per neoassunti delle scuole superiori, ossia professori e professoresse perlopiù giovani, anche se non del tutto inesperti. Per via della rarità di concorsi per entrare in ruolo, infatti, la maggior parte dei partecipanti aveva già alle spalle diversi anni di insegnamento; proprio per questo io e altri colleghi siamo rimasti molto delusi dalle scelte dei formatori per quell’incontro che chiudeva un anno di preparazione al ruolo. Per lanciarci verso l’inizio di una lunga carriera, hanno infatti deciso di focalizzarsi sui rischi del mestiere, sulle insidie dei comportamenti troppo amichevoli con gli alunni o del nostro modo di rivolgerci a loro, con aneddoti al limite del “non si può più dire niente”, arrivando anche a sconsigliarci vivamente – e in qualsiasi caso – di entare in contatto fisico con i nostri alunni, neanche per un abbraccio consolatore in caso di crisi, cosa che ahimè succede spesso.
Posto che purtroppo moltissimi, soprattutto le ragazze, possono citare almeno un professore che durante il loro percorso scolastico ha avuto atteggiamenti assolutamente non professionali se non propriamente maschilisti o addirittura pedofili, ad un evento del genere avrei trovato molto più incoraggiante ricevere fiducia e ascoltare aneddoti luminosi della vita degli insegnanti; di certo non ci aspettavamo minacce velate e sospetto verso la nostra professionalità.

Pochi giorni dopo, al concerto, ho trovato finalmente nelle parole di Militant A quello che i colleghi formatori non avevano avuto il coraggio di comunicarci: il fatto, cioè, di credere fortemente nella scuola e in particolare nell’azione degli insegnanti, tutti diversi – per fortuna! – ma con gli stessi princìpi quali l’attenzione e la cura verso il percorso personale di ogni alunno, la volontà di stimolare la crescita dei ragazzi invece di dettarla, la partecipazione attiva al processo di insegnamento-apprendimento. Per non parlare del contatto col territorio e il profondo ancorarsi alla realtà contemporanea. Per fare questo ha deciso di cantarci un pezzo dedicato al ricordo di Simonetta Salacone, ex dirigente di una scuola romana da lei rivoluzionata a partire dai concetti di inclusione e comunità; una storia d’ispirazione e di legittimazione per chi fa questo lavoro (per approfondire clicca qui).
Tutto il contrario, quindi, dell’immagine del tipico insegnante che vediamo attraverso i media più popolari e che ci può anche far sorridere, ma che a pensarci più a fondo non fa che dare eco a una generalizzazione superficiale e inverosimile, in cui chi insegna non si riconosce affatto.

– Soledad

Mon ami Donnie Darko

L’estate dei film

La mia prima vera estate di autonomia è stata quella tra la fine delle medie e l’inizio delle superiori. Avevo tanto tempo, due amiche con lo stesso nome e una vecchia bicicletta bianca. Ci salivo la mattina e tornavo la sera, con in borsa solo gli occhiali da sole (quelli che con G. e G. avevamo tutte e tre uguali, ma di colori diversi), l’i-pod da ascoltare in due, con una cuffietta a testa e il telefono che tanto non avremmo usato.

Quell’estate G. – quella alta, eccentrica e con la battuta sempre pronta – ha fatto una proposta che ci avrebbe cambiato la vita: guardare un film nuovo ogni giorno. E così abbiamo iniziato, e non ricordo tutti i titoli né per quanto tempo abbiamo resistito, ma ricordo l’obbligatoria tappa al Blockbuster per noleggiare i DVD e comprare i popcorn e il salotto moderno e luminoso di G. in cui ci sedevamo sul tappeto, davanti alla TV.

È stata l’estate del mio primo film horror, che mi ha terrorizzato per anni fino al momento in cui, un paio d’anni fa, ho deciso di riguardarlo per esorcizzarlo e ho scoperto che non faceva più paura (peccato).

È stata l’estate di Gus Van Sant e Donnie Darko, per noi ex emo bullizzate che cercavamo un’identità (trovando un certo conforto) in libri, film e serie disturbanti che hanno alterato per sempre i nostri neuroni.

Non le amiche, ma questo bagaglio emotivo, più gli enormi occhiali bianchi e le converse scarabocchiate a penna, sono quello che mi rimane di quei mesi da quando Blockbuster ha chiuso e abbiamo smesso di passare i pomeriggi sedute sulla staccionata dello skate-park.
Grazie G. per i film e per tutte le avventure!

E dall’ansia del tempo che passa è tutto,

Soledad

Paranoid Park, Gus Van Sant (2007)
Donnie Darko, Richard Kelly (2001)
The Orphanage, Juan Antonio Bayona (2007)

Dov’è il Kindle?

10:40 Sto attraversando i boschi tra Cottbus e Dresda su un bus diretto a Praga. E sto impazzendo perché non so se ho lasciato il Kindle nello zaino o se l’ho in qualche modo perso.

Il mix ansia-distrazione è l’equivalente di giocare alla propria vita in modalità media – nulla di tragico, ma potrebbe essere molto più facile.

Però stranamente sembro aver accettato con relativa tranquillità l’idea che potrò verificare solo tra tre ore se è nello zaino o se è perduto per sempre. Prodigi della terapia.

11:45 Più o meno lo stesso tipo di pensieri invadenti mi ha un po’ perseguitato durante l’ultimo viaggio con C., avevo costantemente l’impressione di essermi scordato qualcosa, specialmente gli ultimi giorni. Poi invece non mi ero perso nulla.

Un altro pensiero invadente è stato quello della mia situazione abitativa prossima ventura. La mia coinquilina più anziana (J.) sembra sempre più instabile e violenta. Un litigone per futili motivi tra lei e S. è degenerato in urla da parte di J. che ricordava a S. (e a me) che lei “è la Hauptmieterin (affittuaria principale)” e che dunque quella è casa sua, non nostra. S. sta ora cercando casa, io penso la seguirò a breve, anche se non c’ho cazzi. Mi mancherai, S.

Il kindle era scivolato sotto il sedile.

12.25 Comunque ho tratto grande soddisfazione nel ritrovare gran parte dei luoghi che ho attraversato durante il mio Erasmus, sette anni fa. Soprattutto mi ha fatto piacere che C. li abbia apprezzati e abbia colto in parte i motivi del mio amore/ossessione per l’Irlanda e la sua storia. Che bello poter condividere le proprie fissazioni.

Ho avuto modo di ripensare alla persona che ero sette anni fa (e che scriveva del proprio Erasmus sulla precedente incarnazione di questo blog) e di quanto sia cambiato. Di una buona dose di sicurezza e autostima in più, della serenità che inizia a visitarmi più spesso, ma anche di tutto l’entusiasmo e la passione persi per strada. Dei capelli bianchi. Come per la nave di Teseo, fino a che punto io sono ancora io?

13.35 Il Kindle era sotto il sedile. Il mio peggiore incubo, mi ero convinto a restare calmo e rischiavo di perderlo. “Anche l’ansia può essere preziosa” (semicit.)

In ogni caso, sto rivivendo una strana esperienza che non capitava da anni, avere una persona che mi insegue. Che attivamente cerca la mia attenzione, un po’ come un bubi sovraeccitato. E io mi scopro un gatto schivo che si scosta e cerca di capire meglio, anche solo per dimostrare un po’ di responsabilità emozionale.

Torniamo al discorso per cui sono generalmente in difficoltà e restio ad accettare l’affetto altrui, per non parlare dei complimenti, che considero immotivati nel migliore dei casi, falsi nel peggiore. Welcome to my brain.

Capirò spero presto come/cosa provo e deciderò di conseguenza. E pensare che volevo prendermi una piccola pausa dall’universo e godermi una potenziale cotta per una persona per la quale esisto a settimane alterne – una meravigliosa sintesi tra le emozioni di un quindicenne e la maturità di un trentenne che ha smesso di sbroccare quando non riceve risposta.

E invece.

Nulla di nuovo, in perfetto stile irlandese, “When it rains, it pours/gets sunny again/starts hailing/now it’s raining again/where is all this wind coming from/looks like it’s back to sunny again/for feck’s sake it’s snowing now” (storia vera, Dublino 24/03/2015).

14:30 scendo dal bus, recupero lo zaino, ho tutto, compreso qualche capello bianco in più. Che bella vita.

Shout out per E. che si è dimostrata la stupenda persona che sospettavo fosse e ha coccolato me e C. a Dublino e Howth. Ti aspetto a Berlimo.

25.08.2022

Berlino, 14/11

Ieri mi sono fatto male al piede sinistro.
Una roba abbastanza da nulla, ma dolore sufficiente a rinchiudermi in casa.
Incredibile come dopo 5 mesi di lockdown duro nel 2020 mi sia scoperto di nuovo disabituato alla noia di giornate passate in solitaria.
Sarà che le coinquiline erano fuori, che ieri sera ero costretto a letto col piede alto e col ghiaccio, che non sono nemmeno riuscito a pensare di scendere le scale fino al tabaccaio sotto casa, che mi sono trovato costretto a ordinare d’asporto.
Che mi sia riscoperto dolorosamente umano.

Non nel senso che la scoperta di essere umano sia stata dolorosa, ma che quel piccolo costante dolore mi ha ricordato che in fondo siamo tutti terribilmente fragili.
E uscire da una delle settimane più lavorativamente intense della mia vita ha sicuramente giocato un ruolo importante.

Quindi oggi, privo di qualsiasi alternativa, ho fatto una cosa molto umana: ho chiesto aiuto. Mi sono sentito bene nel riceverlo. Questa è una cosa di cui spesso parlo con la p. da quando ho inizio il mio percorso verso maggio.
Non ricordo con precisione quando, il giorno o la settimana in cui ho iniziato, ma mi ricordo come stavo.

Ero uscito da un paio di mesi molto intensi, in cui mi ero ritrovato nuovamente a confrontarmi con le mie emozioni. Non sono bravo a farlo. Qualcosa dentro di me mi dissuade costantemente dall’introspezione, nella paura di scoprire di non essere la persona che credo di essere e che disperatamente cerco di essere. E se fossi solo uno stronzo? Spiegherebbe parecchie cose.
Probabilmente non è così. Non perché io sia l’opposto, ma perché di risposte così facili ne esistono poche e raramente riguardano sé stessi.

Giunge quindi come un fulmine a ciel sereno il commento di J., che commenta le mie ultime disavventure con un “suoni molto più sicuro di prima” e che loda la scelta difficile cui mi sono trovato di fronte a fine estate.

Non voglio entrare nei dettagli, ma ho messo io la parola fine, per davvero, a una situazione che non collimava con le mie necessità e le mie aspettative. Non sono un santo e la situazione non era orribile, ognuno ha sempre la propria porzione di colpa.

Quello che è davvero importante, è che in quest’occasione io abbia trovato la forza di dire no. Non dico quasi mai di no. Non mi riesce facile, non mi piace vedere il disappunto dipinto sul volto della persona cui rivolgo il mio rifiuto, ho anche una notevole paura di non compiere la scelta giusta e di pagarne le conseguenze.
Questa volta l’ho fatto. Non è stato piacevole, neppure per me.
Non ne vado fiero, non me ne vanto. Però noto questa piccola crescita che qualche anno fa sarebbe stata impensabile.

Nel frattempo qui è arrivato il freddo. Tocca ingegnarsi adesso. Bisogna sperare che ci sia spazio dentro i bar, coprirsi quando si esce, accendere i termosifoni – io l’ho acceso ieri per la prima volta solo per controbilanciare la mia completa immobilità. Appena riprenderò a muovermi lo rispegnerò, vorrei provare ad arrivare al 1 dicembre senza riaccenderli. Non è impossibile.

Una cosa l’ho notata. Negli anni mi sono rarefatto. Fatico a stabilire conversazioni valide se non in presenza di persone fidate, e alle volte manco con loro. Mi sento un po’ disconnesso. Ma magari su questo e su altre cose di cui ho discusso con R. ci tornerò un’altra volta.

E. ha lasciato Berlino e il buco si nota. Pure N. non c’è più e si nota pure quello. Però almeno ora vado ad arrampicare con D. e ce la spassiamo notevolmente. Prima o poi gli proporrò di fare serata, di uscire magari coi suoi amici. Sarebbe bello avere un altro amico uomo con cui poter parlare di certe cose, tipo la politica e la musica.

Fine del monologo.
Giusto un po’ di pensieri in libertà, per lasciare una traccia dei progressi fatti e delle risibili sventure che di tanto in tanto capitano.

Dal finestrino

Una foro del paesaggio rurale della Bassa Sassonia, in basso a sinistra un bosco
Niedersachsen, 13.11.2020

“Ho sempre amato viaggiare in treno
Ho persino dedicato poesie ai treni, 7-8 anni fa. Ai tempi era un’esperienza abituale, quella di farsi 5-6 ore di treno nel giro di pochi giorni. Ora ci sono meno abituato e riscopro quel sottile piacere dell’ascoltare il treno in corsa, del vedere il paesaggio fuori dal finestrino scorrere via veloce.
Geografia e meteorologia che si rincorrono e scompaiono. Più di tutto, il viaggio in treno è un viaggio nel tempo, è la più semplice macchina del tempo finora costruita.

Oggi, in treno, per la prima volta mi sono reso conto di essere in Germania.
È una strana sensazione, dettata dal vivere a Berlino. Berlino è diversa. Non si esce più di tanto, raramente si vede altro che la città, d’altronde non occorre: basta spostarsi di poco, da un quartiere all’altro, e già la geografia cambia, è persino possibile trovare boschi e laghi in città, tutto a portata di un biglietto AB.
D’altra parte, c’è vita oltre la Ringbahn?

Ed è così che, ammirando i campi infiniti di grano ed orzo della Bassa Sassonia, i boschi e i pascoli tagliati dalla ferrovia in Brandeburgo e in Assia, per la prima volta dal 2015 mi accorgo di essere in Germania.
Complice il libro che sto leggendo, il paesaggio rurale in direzione sud-ovest mi parla di contadini e rivolte, di guerre di religione, di sudore e fango nel freddo di albe invernali; una punta di desolazione nel guardare i paesini persi nelle campagne grigioverdi, nelle stradine alberate di pioppi, luoghi che appaiono disperatamente monotoni e piccoli e che tuttavia raccolgono più vita e calore di quanto si possa immaginare, seduti dietro a un finestrino.

E così mi riassale il pensiero: sono in Germania.
Ripenso all’ultima volta che ero stato in Germania e a quelle precedenti; mi scappa un sorriso al pensiero di stare vivendo nella capitale di uno stato cui quella città non appartiene o non sembra appartenere. L’ironia di una città in cui la lingua tedesca pare comunque un accidente, un caso, in cui mille idiomi si mescolano nelle strade, mentre qui gli alberi, il cielo, i prati, tutto è vergato in fitta Deutsche Sprache, se non addirittura in qualche oscuro dialetto locale, che evoca remoti tempi di fuochi e di riti magici sotto le querce, di una terra dura, selvaggia, forte e madre, che solo un delirio nazionalista poteva voler trasformare in “terra del padre”.
E questa, testarda, resiste, col suo grigio, col suo marrone, coi suoi malinconici colori autunnali a ricordarti che tu sei un ospite e che lei, invece, rimane.”

Ugo Tovil

(da qualche parte in treno tra Berlino e Francoforte)

Corona chronicles 7

Corona Chronicles 20/04-02/05

Ieri ho deciso di sfidare le mie preoccupazioni e ho voluto celebrare il primo maggio riprendendomi parte della mia normalità andando a piedi da casa fino ad Alexanderplatz.
Complice la bella giornata, devo dire che l’umore è molto migliorato. Anche fare la strada chiacchierando all’andata con U. e al ritorno con M. devo dire che ha contribuito.

Stiamo tutti quanti apprendendo a fatica a gestire la nostra socialità in maniera radicalmente diversa. Sarà interessante vedere cosa ne uscirà da questa tremenda esperienza. Io ci sto facendo il callo, ma mi scopro ogni giorno più ansioso o nervoso e irritabile. Capita che adesso una battuta si trasformi in un’offesa mortale, mentre due mesi fa mi sarebbe probabilmente scivolata addosso senza problemi. La situazione sta scoprendo la carne viva dei miei problemi e ferirsi diventa improvvisamente più facile.

Parte del problema è chiaramente la mancanza di contatto sociale; l’accumulo di ansia nasce, ad esempio, dal lavorare da casa anziché in ufficio, la mancanza di un contatto diretto con i colleghi, l’allungarsi dei tempi di comunicazione, sono tutti fattori che contribuiscono ad aumentare la mia naturale negatività.

In tutto questo si inserisce ovviamente un panorama sociopolitico desolante, in cui ancora una volta sembra che la scelta sia tra la vita e l’economia, tra la crisi economica e quella sanitaria, come se i soldi e la salute fossero mutualmente esclusivi, anziché discutere di come preservare entrambi. Io di soluzioni non ne ho, non ho le conoscenze necessarie per intervenire nel dibattito sulle ricette per uscire dalla situazione, né in campo economico né tantomeno in quello sanitario; però ho l’impressione che si stia ponendo la discussione in modo sbagliato. “Riaprire o tenere chiuso?” è una domanda terribilmente sbagliata, perché presuppone una scelta tra il lavoro e la salute; troveremo risposte più corrette solo cambiando la domanda: “Come riapriamo?” o “Come teniamo chiuso?”, ponendo quindi l’accento sulla salute e la difesa della popolazione, anziché sulla difesa di un’economia precrisi che non tornerà mai ad esistere immutata.

A questo proposito, uno spunto molto interessante è nato dalla conversazione con U. parlando del tema della memoria. Ecco, io continuo a ripetere in tutti i miei arrabbiatissimi post (che siano contro Confindustria, Renzi o chi si rifiuta di vendere le mascherine al prezzo stabilito) che è imperativo tenere a mente tutto. Sarà necessario per guarire affrontare il trauma e presentare il conto ai responsabili.

Tuttavia quando si parla di memoria, sono terribilmente pessimista: la nostra società (intesa in senso globale) è una società del rimosso: non siamo riusciti a chiudere la Resistenza, non siamo riusciti a chiudere gli anni di piombo, non confido troppo nel fatto che riusciremo a chiudere la pandemia. Si premerà per un ritorno al “come prima”, nonostante questo non sia possibile. La ragione è molto semplice e comprensibile: affrontare il trauma significa inserire una cesura nel flusso, dividere il prima dal dopo e accettare che il prima non tornerà mai più; questo, comprensibilmente, fa paura. È molto più confortante pensare che la nostra vita e la nostra storia siano dei flussi ininterrotti in cui non si avvertono scosse. L’alternativa è riconoscere di aver perduto qualcosa. Nessuno ne è immune, nemmeno io.

Però è necessario affrontare questi pensieri. Affrontare di petto il trauma. D’altronde è l’unico modo per guarire, anche se fa male. C’è una ragione se l’etimologia di farmaco parla sia di medicina sia di veleno.

Io intanto non vedo l’ora di poter tornare a dare un abbraccio senza temere per la salute degli altri o della mia.
(U.T., Berlin, 02/05/2020)

Yesterday I decided to face my worries and so I celebrated the International Workers’ Day by retaking some semblance of normality and I went from my place to Alexanderplatz.
Thanks to the nice weather, I must admit my mood visibly improved. Chatting with U. on my way to and with M. on my way back surely helped as well.

We’re all learning to manage our need for social relations in a radically different way. It will be interesting to see what will come out of this terrible experience. I’m getting used to it, but I find myself more and more anxious and irritable every day. It happens now that a joke turns into something terribly offensive, while two months ago I would have effortlessly ignored it. The situation is digging out my issues and hurting myself is suddenly way easier.

The lack of social contact is of course part of the problem; the rising anxiety, for example, stems from the fact that I’m working from home instead of being at the office, the absence of a direct contact with my colleagues, the communication getting slower, these are all factors that help increase my natural negativity.

All this, of course, while outside the socio-political landscape is devastatingly depressing, since the choice seems to be between life and the economy, between an economic crisis or a health one, as if money and health were mutually exclusive, instead of debating how to preserve both. I have no solutions, I don’t have the necessary knowledge to participate in the debate on how to get out of this situation, neither from an economic point of view nor from the medical side; but I still have the feeling that the discussion is based on the wrong premises. “To reopen or to keep shut?” is a terribly wrong question, as it pits the need to be healthy against the need to work; the only way to find a correct answer is to change the question to “How to reopen?” or “How to keep everything shut down?”, so that the emphasis is on defending the population and its health, rather than on defending an economy that will never be the same as before.

A very interesting point came out of my conversation with U. when talking about memory. This is something I keep insisting on in all my angry posts (be them against Confindustria – the national association of entrepreneurs, Matteo Renzi or the retailers that refuse to sell masks at a fixed price): it’s imperative to keep everything in mind for when the moment comes that we come out of this. It will be necessary in order to face the trauma and make those responsible pay.

However, when talking about memory, I’m terribly pessimist: our society is rooted in repression: we couldn’t successfully close the Resistenza (insurgence against the Nazi and Fascist regimes during the last years of World War 2), we couldn’t close the wounds of the ‘70s, I don’t think we’ll manage the wounds this crisis will produce. They will push to go back to an impossible “like before”. The reason is very simple and understandable: facing a traumatic event means to divide our own lives into a “before” and “after” and to accept that things will never go back to the way they were; this is understandably scary. It’s much more comforting to believe that our lives are uninterrupted streams that suffer no shocks. The alternative is to recognise that something got lost along the way. No one is immune to this, not even I.

Unfortunately, there is no alternative: we will have to face this trauma. It’s the only way to heal, though it hurts. It’s not a coincidence if the Greek word pharmakon (drug) meant both medicine and poison.

In the meantime I can’t wait to be able to hug someone without worrying about their health or mine.
(Translated by the author)

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Corona chronicles 6

Corona Chronicles 13-19/04

C’è chi dice che usciremo persone migliori da questa situazione.
Io sono dell’umile opinione che chi lo dice si droghi.
Se c’è una cosa che si è dimostrata il più in assoluto inefficace ad insegnare qualcosa al genere umano, è la disgrazia generalizzata.
Mentre il trauma personale può forse essere produttivo, ma in ogni caso crea le condizioni per un cambiamento, una situazione come quella attuale ci permette allegramente di condividere il senso della tragedia e non sentirlo nostro. La disgrazia è di tutti e non è di nessuno; mal comune, mezzo gaudio.

All’interno di questo paradigma mi ci iscrivo pienamente; per questo sono molto grato a tutte le persone che quotidianamente ribattono agli aforismi motivazionali, ricordando che non solo perché abbiamo molto più tempo da spendere a casa, per forza dobbiamo essere produttivi.
Certo, non poltrire tutto il giorno non è una cattiva idea; io, per mia fortuna, mi tengo attivo lavorando le mie 8 ore e passa al giorno. Poi quando cala il buio e disconnetto il pc, non ho egregiamente voglia di fare un cazzo. E se mi rifugio nei libri, è solo perché ne sono appassionato; se cucino, perché mi rilassa (e ho fame); se faccio le maratone di serie tv, perché ho bisogno di disconnettere il cervello.
Questa non è una prova divina da superare.

L’onda alta non ti tira a fondo per vedere quanto sei bravo a nuotare; il virus se ne sbatte se diventi più virtuoso.
E infatti mi arrabbio continuamente con tutti quelli che dicono che “è la Terra che si ribella”. Un cazzo. È un sistema che avrebbe dovuto essere, se non abbattuto, almeno molto migliorato decenni fa, che dimostra tutti i propri limiti di fronte alla devastante forza di un universo che ci ignora.

“…e lì proprio ho percepito quanto alla Natura, all’Universo, alle foglie, ai sassi…quanto nun gliene può frega’ de meno de te, se stai bene, se stai male, se sei felice, se stai a soffri’, se sei vivo e se sei morto…ecco, allora, questa grande, clamorosa indifferenza dell’Universo…io la chiamo dio. Che come nome è anche più breve, no?”
(C. Guzzanti, Padre Pizzarro)

Questo non è per sminuire il dolore e la fatica di nessuno, ma per rimetterla in prospettiva. È una battaglia in primis solitaria, contro la solitudine che ci attanaglia il cuore, contro la noia che ci mangia vivi, contro i muri che si fanno via via più stretti. Io avrei pure spazio per camminare, ma scelgo di osservare una quarantena quasi italiana. Non compilo l’autocertificazione, ma poco ci manca.

Questo perché io sono la persona che sono. Per questo non mi sento di giudicare gli altri, per questo sto tenendo dentro di me la frustrazione, lasciandola uscire a brevi colpi con poche persone selezionate. Non sarà salutare, probabilmente, ma è come ho sempre vissuto. Tutto va bene, a nessuno gliene frega dei tuoi drammi interiori – e poi non è nemmeno vero, ho la fortuna di essere circondato di persone che mi ascolterebbero pure, ma sono una persona che si fa scrupoli a suonare un campanello e piuttosto rimane 15 minuti fuori dalla porta, ti pare che ti carico dei miei problemi? L’ho fatto in passato, mi è bastato.

Se c’è una cosa che questa pandemia ci insegna, però, è che dipendiamo molto più dagli altri di quanto pensiamo. Le chiamate skype, le ore perse a messaggiare, i piccoli aggiornamenti quotidiani, ci ancorano alla realtà, pur essendo solo un palliativo, il metadone alla quella potente droga chiamata affetto. Allora spero che, se non a livello collettivo, almeno a livello personale impariamo a darci meno per scontati e a curarci dei nostri affetti.

Se c’è una cosa che sto imparando, è che è facile e figo fare il misantropo quando hai la possibilità di scegliere, ma è molto più difficile quando la scelta ti viene negata.

Una cosa di cui sono grato è di aver rilanciato questo spazio. Mi sono abituato all’idea di non avere chissà che talento (e nemmeno pazienza) per la scrittura, però dipanare i pensieri sul foglio mi aiuta. Anche se poi prendono vita e si avvinghiano come bisce attorno ai concetti che vorrei trasmettere, anche se mi sembra di non andare mai abbastanza in profondità. Vero è che, coi polmoni da fumatore che mi ritrovo, l’apnea non è sicuramente l’attività più indicata. E già che quest’ondata scura ci sta trascinando sotto un po’ tutti, forse è meglio restare un po’ più verso dove si tocca.
U.T., Berlin, 17/04/2020

There are those who say that we will get out of this situation as better people.
In my humble opinion, those who say it are high as kites.
If there something that has proven to be absolutely useless in teaching something to humankind, it’s a general calamity.
While personal trauma may be productive, in any case laying the groundwork for change, the present situation allows us to share this feeling of doom without owning it. Tragedy hits everybody and therefore no one.

I place myself firmly inside this pattern; that’s why I’m grateful for all the people that everyday fight back against those horrible motivational posters, reminding us that just because we spend more time at home, we shouldn’t necessarily be more productive.
Sure, lying in bed all day long might not be a great idea; thankfully, I keep myself busy working my 8 hours a day. Then, when darkness falls and I disconnect my pc, I usually don’t feel like doing much. If I take refuge in my books, it’s because I’ve always been passionate about reading; if I cook, it’s because it relaxes me (and I’m hungry); if I binge watch tv series, it’s because I need to shut down my brain.
This is not a divine test to pass.

The high wave doesn’t bring you down to see how good you’re at swimming; the virus doesn’t care if you acquire new skills.
I am constantly getting angry at those that say that it’s “the Earth revolting against us”. For fuck’s sake. It’s a system that should have been heavily improved (if not brought down completely) showing all its weakness against the devastating power of a universe that ignores us.

“…it’s in that moment I perceived how Nature, the Universe, the leaves, the rocks…don’t give a fuck about you, if you feel fine, if you feel bad, if you’re happy, if you’re suffering, if you’re alive or dead…well, then, this huge, astonishing indifference by the Universe…I call it god. It’s shorter name, isn’t it?”
(C. Guzzanti, Padre Pizzarro)


This is not to underestimate anyone’s sorrow and pain, but to put them into perspective. It’s first a solitary battle, against the loneliness that hits our hearts, against the boredom that eats us alive, against the walls that get closer and closer. I would have room to walk, but I choose to observe an almost Italian quarantine. I’m not filling out forms, but I’m almost there.

This is just because I am me. This is the reason why I don’t feel like judging other people, why I keep my frustration bottled up inside, and let it out only briefly with very few people. It won’t be healthy, but this is how I’ve always lived. Everything’s fine, nobody cares about your drama – untrue, I’m lucky enough to be surrounded by people who do in fact care, but I’m that person that will wait 15 minutes out of the door rather than ring the doorbell, do you really think I’ll talk about my issues? I did, once, and that was enough.

If there’s a lesson to be learnt from this pandemic, it’s that we all depend from the others much more than we usually admit. The Skype calls, the hours spent texting, the little everyday updates anchor us to reality, even though they’re a weak substitute, the methadone to that powerful drug called affection. Therefore, I hope that, if not on a collective level, at least personally we all learn to care more for the people we love and not to take them for granted.

If there’s something I’m learning, is that it’s very cool to play the misanthrope when given the possibility to stop. Harder when you have no choice.

I’m happy to have rekindled this project. I’ve got used to the fact that I’m not particularly talented (and that I don’t have enough patience) for writing, but writing down my thoughts helps. Even though they then become alive and get twisted like snakes around the concepts I want to get through, even though I feel like I never get deep enough. True, with my smoker’s lungs, deep diving is not the most recommended hobby. And with this black wave taking us all down, maybe it’s best to keep closer to the shallow end.
(Translation by the author)

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Corona chronicles 5

Corona Chronicles 05-12/04

Non avrei mai pensato di ritrovarmi all’interno di una dinamica di assedio, di nuovo, nella mia vita. Sarebbe molto importante che le persone capissero che per quanto questa situazione sia dura non è Sarajevo non è Srebrenica.
U., Italy, 5/04/20

(I never would have thought I’d find myself in a siege dynamic, again, in my life. It would be very important if people could understand that this situation is no Sarajevo or Srebrenica, no matter how hard it gets)

Ho il collo in tensione, a ricordarmi che, nonostante i miei proclami di aver trovato la mia “dimensione” (espressione che odio per motivi personali), neanche io me la sto vivendo bene. Come nella battuta che citava il filosofo Žižek da un vecchio film:
– Vorrei un caffé senza panna.
– Abbiamo finito la panna, va bene lo stesso un caffè senza latte?
non mi pesa lo stare a casa, davanti al computer o a letto a leggere; erano tra le mie attività più comuni anche prima del casino, non ero il tipo che si va ad iscrivere a mille corsi, fa mille attività, si dà anima e corpo a qualche hobby; tuttalpiù andavo a bere una birretta con qualche amico e ci facevamo una chiacchierata, grande e vera passione della mia vita.
Ora pure questo mi è precluso, non ho alternative, e rimango seduto al tavolino ad aspettare un caffé senza latte, quando io lo volevo senza panna.

La vita è ‘na guera, sì la vita è ‘na battaja
La vita è ‘na guera, e cade pure chi nun sbaja


Un amico ieri si chiedeva su Instagram come diavolo facesse tutta sta gente ad essere così ottimista in questa situazione.
Io gli ho risposto che nel migliore dei casi sono dei cretini, nel peggiore degli ecofascisti.
La realtà è ovviamente più complessa, ma non era mia intenzione rendergli onore su un social network; la verità è che la situazione è sconfortante e meritevole di speranza allo stesso tempo. Sconfortante perché assistiamo alle solite pagliacciate di chi, col culo più o meno al coperto, vorrebbe far riaprire tutto per fermare l’emorragia economica; nel frattempo, la gente si trova di fronte al dilemma: morire di fame o di COVID 19? E noi siamo un paese ricco. Figuratevi gli altri. Un paese intelligente – o quantomeno, un sistema giusto – dovrebbe perlomeno fornire una terza opzione, tra il dilapidare il proprio patrimonio e l’ammalarsi.
Siamo in emergenza, ma pare che non se ne renda conto nessuno, fuori dagli ospedali.
Merita speranza perché nonostante tutto, ne usciremo e la gente si sta sempre più rendendo conto che le cose non vanno bene così.

La vita è ‘na guera che tutti dovemo fà
La vita è ‘na guera, nessun se po’ negà


A questo proposito, sono entrato nella terza settimana di lavoro da casa. Ho uno schermo extra, mangio in maniera più regolare (anche se crearsi un menù settimanale e seguirlo è dura!) e riesco più o meno a dormire le ore giuste la notte.
Non sono proprio entusiasta di questa situazione, vorrei non lavorare dove dormo, ma tertium non datur: o in ufficio o in camera mia.
Per fortuna pare che alcuni dei problemi di connessione, che tanto mi facevano soffrire, si siano risolti con l’uso di un cavo LAN. Martedì si verifica se funziona.

Ieri ho celebrato quest’importante ricorrenza cristiana coi miei coinquilini: una berlinese che ha visto cadere il muro quando aveva 15 anni e un ragazzo indiano che mi ha chiesto cosa fosse la pasqua. Per la prima volta ci siamo riuniti attorno a una tavola e abbiamo cenato insieme.
Ho passato letteralmente tutto il pomeriggio a preparare il pasticcio (sì, da noi le lasagne si chiamano così) col ragù vegano e i funghi. Io c’ho gli standard alti e non sono rimasto particolarmente soddisfatto, i miei coinquilini parevano entusiasti.
Prossima volta si migliorerà.
Avanti così: pessimisti con la ragione, ottimisti con la volontà.

La vita è ‘na guera, ma pure se ‘n faccia te sputa
… rimane degna sempre d’esse vissuta!

(Ugo, Berlin, 12/04/20)

My neck hurts, reminding me that, despite my claims of having found my “space”, this is not great – to use a euphemism. As in the joke coming from an old movie quoted by Žižek, the philosopher:
– I’d like a coffee without cream, please.
– We ran out of cream, sir, would you like a coffee without milk instead?
it’s not the staying in that frustrates me, reading a book or sitting in front of the computer; those were my most common activities even before, I’ve never been a guy that goes out of his way to attend courses, participate in stuff, has a thousand hobbies; I would usually rather go have a beer with a friend and chat the time away, talking being that the one true thing I’m really passionate about.
Now I’m precluded even from that, I have no alternatives, and I’m stuck waiting a coffee without milk, when I wanted it without cream.

Life’s a war, yeah life’s a battle
Life’s a war, and one falls even without making mistakes


A friend yesterday was wondering how all these people can be so damn optimist about the situation.
I told him that best case scenario they’re idiots; worst case they’re ecofascists.
Reality is of course more complex than that, but it was not my intention to honour them of a lengthy discussion on a social network; truth is, the situation is both disheartening and hopeful. Disheartening because we’re witnessing the same old shit by people who are safe that would like to reopen everything in order to keep on earning; in the meantime, people are faced with a horrible choice: die of hunger or of the virus? And we live in the rich countries. Imagine the rest of the world. A clever country – a fair system, if one exists – should at least provide a third option, an alternative to both wasting all one’s savings and getting sick.
But it looks like no one outside of the hospitals realises that we’re in an emergency.
Hopeful because more and more people are realising that things are not great and were not good to begin with.

Life’s a war we all have to serve in
Life’s a war, and no one can escape from it

About that, I entered my third week of working from home. I have an extra screen, I eat regularly (though following a weekly schedule is hard!) and I manage to rest enough, more or less.
I’m not really enthused by this situation as a whole, I’d rather not work in the same room I sleep in, but tertium non datur: either go to the office or work from my bedroom.
Luckily, it looks like some problems with the connection have been solved. It was a real pain for me, but the new LAN cable seems to be working. Tuesday we’ll see how it goes.

Yesterday I celebrated this Christian festival by having dinner with my flatmates: a woman from Berlin that was fifteen when the wall came down and an Indian guy who asked what was Easter. For the first time we ate together, sitting at the same table.
I literally spent the whole afternoon cooking a lasagna with vegan bolognaise and mushrooms. I have high standards and wasn’t very satisfied with the results, but they liked it nonetheless.
Next time it will be better.
Onwards, pessimism of the intellect, optimism of the will.

Life is a war, but even if it spits in your face
… it still deserves to be lived!
(translation by Ugo)

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Corona chronicles 4

Corona Chronicles 28/03-04/04

Questa quarantena ci fa trovare lo spazio per cose che prima si prima si rimandavano perché “non si aveva tempo”. Così oggi sono andata a trovare A. Lei abita al piano terra del mio palazzo e a maggio compie 87 anni. Le lascio un po’ di spesa e lei mi dà una pera, tre merendine e un po’ di tovaglioli per ricambiare. Come capita sempre quando vado a trovarla, A. Mi mostra i suoi ricordi, che sono principalmente foto e cartoline che le persone le hanno mandato nel corso degli anni. La foto che mi ha colpito di più è di lei a 28 anni con suo fratello e sua sorella, una foto del 1941. La vita non è stata clemente con lei. È stata “adottata” dalla famiglia del marito che è morto 21 anni fa di tumore, ma che stava già male da molto tempo. Non ha mai avuto figli a causa di fibromi. Le è rimasta una sorella, che vive negli Stati Uniti. Mi fa vedere le cartoline di una coppia che abitava nel palazzo, Giampaolo e Biagio, che dal 2007 al 2013 le hanno mandato cartoline da tutto il mondo. Biagio la chiama la sua principessa e la prende in giro per come cucinava. Giampaolo, più composto, le racconta dei luoghi che hanno visitato. Mentre mi mostra queste cose, lascia tutto in disordine, come se fosse contenta, poi dopo di avere qualcosa da fare, di poter rimettere tutto a posto. A. mi dice che la nipote l’ha riempita di ansie, dicendole di non uscire assolutamente per nessun motivo e lei mi dice: “Ho 87 anni Laura, che altro potrei fare se non uscire?”.
Lo so perché le mie visite sono state sempre più sporadiche e perché non avevo tempo per passare a trovarla. Perché A. si ricorda tutto e mi ricorda tutto. Di quello che è successo quando mia madre si è ammalata e quando ha incominciato sistematicamente ad allontare tutte quelle persone che aveva intorno che le volevano bene. E questo è faticoso. “Che dici, quando tutto questo sarà finito, riusciremo a vederci tutti insieme? Potrò venire a vedere tu madre?”.
Dopo mi racconta di suo padre.
“Mio padre era cattivo, era un fascista. Quando mia madre ha avuto il tumore al cervello, a 45 anni, ed era in ospedale, lui aveva già un’altra e non sai quanto abbiamo sofferto io e i miei fratelli per mano sua. Io l’ho visto il fascismo. Andavamo dai preti per mangiare la minestra. Mia nonna abitava in via Carlo Felice e da lì abbiamo visto i tedeschi scappare e gli americani arrivare.”
Quando me ne devo andare mi infila 20 euro in mano che io negozio a 10 e mi ringrazia come la figlia che non ha mai avuto. Io me ne vado con un nodo alla gola, senza riuscire a dirle che lei per me è la nonna che non ho mai avuto.
L. Roma, 29/03/2020

Pensa le stranezze della vita da domani inizio a lavorare full time in una fabbrica…
E la cosa più buffa è la mia mansione ovvero “misuratrice di febbre ai visitatori e dipendenti”
A., Italy, 30/03/20

Non avrei mai pensato di ritrovarmi la domenica mattina bella pimpante a fare la parmigiana di melanzane. Ho sempre pensato che la parmigiana di melanzane fosse un piatto che fanno solo le nonnine o che si trova al ristorante e che la domenica mattina fosse fatta per dormire.

Soprattutto non avrei mai pensato di trovarmi a scrivere, un lunedì sera, su un divano rosso, il penultimo giorno di marzo, quando fino a poche ore fa nevicava. I fiocchi che scendevano non erano freddi, erano però bianchi e grossi. Non avrei mai pensato di ritrovarmi in una situazione del genere, così surreale. Nessuno poteva saperlo, nessuno lo sapeva. 

Più vivo queste giornate più mi vedo in un futuro lontano, in una bolla di sapone, ad aprire un libro di storia di quinta elementare, dove in uno degli ultimi capitoli viene analizzato proprio questo bizzarro periodo storico, che verrà narrato in maniera scientifica, forse con un presente storico, che chissà se esprimerà un’epoca conclusa o ancora contemporanea…In quel futuro poco nitido e sfocato, mi vedo. La “io” di 35 anni è sempre la stessa di quella che immaginavo come quando ero bambina. Un maglione rosso, un sorriso smagliante e lunghi capelli scuri, sani e forti. Si vede che quando ero piccola non sapevo quanto fosse difficile curare i capelli, stare dietro alle doppie punte e alle macchie lasciate dal mio tè nero preferito proveniente da Singapore. Questa me, racconta con gioia negli occhi, ma cercando di celare la voce quasi strozzata a sua figlia che “mamma c’era”. Un po’ come quando passando per Piazza Fontana a Milano la mia di mamma mi raccontava dove era lei quel lontano 12 dicembre 1969. Così farò io, tra più di cinque e meno di otto anni. Racconterò a mia figlia, o alle bimbe gemelle della vicina di casa, qualcosa di più vissuto rispetto a quello che si legge su un libro di storia. Magari non saprò dire loro il numero esatto dei morti che avrà causato questa epidemia, ma saprò raccontare loro cosa è successo a partire dal marzo 2020. E quello che racconterò io sarà diverso da quello che racconteranno gli altri vicini sempre a queste due gemelle, che ascoltano e si chiederanno come mai al quarto piano l’hanno vissuta meglio rispetto che al primo.
S., Berlin, 30/03/20

Lockdown breakups
My boyfriend’s lack of communication never really stood out to me, or I just brushed it off with the usual excuse that that’s just how straight men are. It was only when my friends remarked “but surely you’re videochatting all the time now?” that I realised we hadn’t exactly talked since we got stuck on opposite sides of a closed border.
A., Belgium, 01/04/20

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