Insegnare non è cOoL

Abbiamo sete di sapere, vogliamo bere
Ce ne faremo un mestiere, perché sapere è potere

Assalti Frontali, Cattivi maestri

Generalmente – nei video comici che girano sui social, ad esempio, o nei discorsi superficiali al bar o alla cena di Natale – la categoria degli insegnanti è percepita come un blocco unico caratterizzato da passività, da un’ottusa perpetuazione di regole, nozioni, linguaggi e modalità imposte dall’alto e dalla conseguente cecità davanti ai problemi dei singoli alunni o alle necessità della società contemporanea.
Però, se si prova a chiedere a chiunque di ripensare, tra tutti gli insegnanti che ha avuto, a qualcuno che abbia lasciato un ricordo profondo e un’impronta nella sua vita, ne nominerà sicuramente uno o più. Spesso l’influenza di quella personalità, quel modo di insegnare o le scoperte fatte grazie a quell’insegnante continua nell’età adulta, e ripensarci non rimanda che a sensazioni piacevoli e alla consapevolezza di essere diventati chi si è anche grazie al contributo di quella persona.
Si delinea quindi immediatamente non più un blocco cieco e senza pietà di insegnanti da contraddire e deridere, ma una galassia di esperienze diverse, non prive di senso ed episodi formativi importanti.

Ok fine del pippone, mi serviva da introduzione a quello che in realtà volevo dire.

La questione è, ci interessa cercare di cambiare la rappresentazione della categoria degli insegnanti? Riconoscerne il ruolo chiave e la dignità, professionalmente e umanamente – dato che in questo lavoro le due cose vanno necessariamente insieme?
Secondo gli Assalti Frontali sì, e molte loro canzoni da un certo momento della loro storia in poi riguardano la scuola e il suo superpotere, quello di insegnare alle giovani menti gli strumenti per formarsi e andare nel mondo in modo autonomo e consapevole.
Un paio di mesi fa, durante un loro concerto in un paesino sperduto della campagna veneziana (ma con un festival con i controcazzi), con il loro parlare di scuola con grande rispetto e amore sono riusciti a commuovermi (ok è stata anche la sindrome premestruale, ma non importa), perché senza saperlo, in quel momento avevo un grande bisogno di discorsi del genere verso il mio lavoro.
Volenti o nolenti, insegnare non è solo una prestazione da svolgere; se fatto bene è anche una missione, e chi se ne fa carico ha bisogno di motivazione tanto quanto gli alunni che stanno dietro ai banchi.
E quindi la sera del concerto ha inaspettatamente scatenato delle riflessioni perché, anche se apparentemente non ci stavo pensando più, qualche giorno prima ero stata a un grande evento formativo per neoassunti delle scuole superiori, ossia professori e professoresse perlopiù giovani, anche se non del tutto inesperti. Per via della rarità di concorsi per entrare in ruolo, infatti, la maggior parte dei partecipanti aveva già alle spalle diversi anni di insegnamento; proprio per questo io e altri colleghi siamo rimasti molto delusi dalle scelte dei formatori per quell’incontro che chiudeva un anno di preparazione al ruolo. Per lanciarci verso l’inizio di una lunga carriera, hanno infatti deciso di focalizzarsi sui rischi del mestiere, sulle insidie dei comportamenti troppo amichevoli con gli alunni o del nostro modo di rivolgerci a loro, con aneddoti al limite del “non si può più dire niente”, arrivando anche a sconsigliarci vivamente – e in qualsiasi caso – di entare in contatto fisico con i nostri alunni, neanche per un abbraccio consolatore in caso di crisi, cosa che ahimè succede spesso.
Posto che purtroppo moltissimi, soprattutto le ragazze, possono citare almeno un professore che durante il loro percorso scolastico ha avuto atteggiamenti assolutamente non professionali se non propriamente maschilisti o addirittura pedofili, ad un evento del genere avrei trovato molto più incoraggiante ricevere fiducia e ascoltare aneddoti luminosi della vita degli insegnanti; di certo non ci aspettavamo minacce velate e sospetto verso la nostra professionalità.

Pochi giorni dopo, al concerto, ho trovato finalmente nelle parole di Militant A quello che i colleghi formatori non avevano avuto il coraggio di comunicarci: il fatto, cioè, di credere fortemente nella scuola e in particolare nell’azione degli insegnanti, tutti diversi – per fortuna! – ma con gli stessi princìpi quali l’attenzione e la cura verso il percorso personale di ogni alunno, la volontà di stimolare la crescita dei ragazzi invece di dettarla, la partecipazione attiva al processo di insegnamento-apprendimento. Per non parlare del contatto col territorio e il profondo ancorarsi alla realtà contemporanea. Per fare questo ha deciso di cantarci un pezzo dedicato al ricordo di Simonetta Salacone, ex dirigente di una scuola romana da lei rivoluzionata a partire dai concetti di inclusione e comunità; una storia d’ispirazione e di legittimazione per chi fa questo lavoro (per approfondire clicca qui).
Tutto il contrario, quindi, dell’immagine del tipico insegnante che vediamo attraverso i media più popolari e che ci può anche far sorridere, ma che a pensarci più a fondo non fa che dare eco a una generalizzazione superficiale e inverosimile, in cui chi insegna non si riconosce affatto.

– Soledad

Mon ami Donnie Darko

L’estate dei film

La mia prima vera estate di autonomia è stata quella tra la fine delle medie e l’inizio delle superiori. Avevo tanto tempo, due amiche con lo stesso nome e una vecchia bicicletta bianca. Ci salivo la mattina e tornavo la sera, con in borsa solo gli occhiali da sole (quelli che con G. e G. avevamo tutte e tre uguali, ma di colori diversi), l’i-pod da ascoltare in due, con una cuffietta a testa e il telefono che tanto non avremmo usato.

Quell’estate G. – quella alta, eccentrica e con la battuta sempre pronta – ha fatto una proposta che ci avrebbe cambiato la vita: guardare un film nuovo ogni giorno. E così abbiamo iniziato, e non ricordo tutti i titoli né per quanto tempo abbiamo resistito, ma ricordo l’obbligatoria tappa al Blockbuster per noleggiare i DVD e comprare i popcorn e il salotto moderno e luminoso di G. in cui ci sedevamo sul tappeto, davanti alla TV.

È stata l’estate del mio primo film horror, che mi ha terrorizzato per anni fino al momento in cui, un paio d’anni fa, ho deciso di riguardarlo per esorcizzarlo e ho scoperto che non faceva più paura (peccato).

È stata l’estate di Gus Van Sant e Donnie Darko, per noi ex emo bullizzate che cercavamo un’identità (trovando un certo conforto) in libri, film e serie disturbanti che hanno alterato per sempre i nostri neuroni.

Non le amiche, ma questo bagaglio emotivo, più gli enormi occhiali bianchi e le converse scarabocchiate a penna, sono quello che mi rimane di quei mesi da quando Blockbuster ha chiuso e abbiamo smesso di passare i pomeriggi sedute sulla staccionata dello skate-park.
Grazie G. per i film e per tutte le avventure!

E dall’ansia del tempo che passa è tutto,

Soledad

Paranoid Park, Gus Van Sant (2007)
Donnie Darko, Richard Kelly (2001)
The Orphanage, Juan Antonio Bayona (2007)

Gli ingredienti giusti

I desideri non invecchiano quasi mai con l’età.
– Franco Battiato


La scorsa settimana sono andata a Venezia.

L’ultima volta ci ero stata qualche mese fa, in piena estate, per fare da guida a degli amici in vacanza. Come faccio di solito, li ho portati fuori dalle vie più turistiche – lontano il più possibile da Rialto e San Marco – a vedere i miei angoli preferiti, scoperti vagando durante gli anni di università. Però, pur ripercorrendo tratti di strada a cui sono particolarmente affezionata – campo San Barnaba, San Pantalon, le Zattere – la città mi era sembrata qualcosa di estremamente finto. Una scenografia. Le case di campo Santa Margherita mi sembravano delle sagome di cartone, i fiori alle finestre troppo colorati per essere veri, Venezia intera un carillon che girava in automatico. Ero tornata a casa amareggiata e mi ero detta, è passato troppo tempo, la città è tutta diversa e le notizie sono vere: gli alloggi per turisti hanno superato quelli dei residenti, e si vede. O peggio: ecco, crescendo (invecchiando?) sto perdendo l’entusiasmo per tutto, non mi meraviglia più quello che una volta mi piaceva tanto. E via così.

Senza però neanche il tempo di ripensare a queste cose, qualche giorno fa tornata da scuola sono saltata al volo su un autobus per andare in stazione. Lì come previsto ho incontrato la mia amica M. e da quel momento è iniziato una specie di sogno: tutto quanto era uguale a quando andavamo a lezione, io e lei, con il treno delle 14:02 (ora parte un minuto dopo) a far ridere i vicini di posto con conversazioni fatte solo di imitazioni (sapranno mai come parliamo davvero?), per poi dirigerci verso le sedi di Dorsoduro. L’occasione per il viaggio era la proiezione di un film in un’aula dell’università, e quando siamo arrivate è stata una doccia calda di ricordi, di esaltazione e di malinconia.

Tutte le emozioni sono tornate al loro posto, e l’ho detto a M., che come sempre già sapeva. Ho sbagliato ad andarci in estate. La stagione di Venezia è l’autunno. Con l’aria più fredda, la sera che scende mentre esci dalle aule accaldate, i lampioni pallidi sul cielo blu intenso. Le calli con i graffiti ai tuoi lati quando ti affretti verso la stazione. Le vetrine illuminate con pasticcini o libri colorati che fanno voglia ma costano troppo.

Allora gli edifici sono tornati abitati e tridimensionali, e le pareti di mattoni e salsedine. Per strada la lettrice di russo ci ha riconosciute e ci siamo sentite di nuovo al nostro posto, ancora studentesse, non più annebbiate da una routine frettolosa ma lucide e (con)centrate, con la voglia di ritornare in mezzo a studenti internazionali e pavimenti alla veneziana perché è dove ci piace stare.

Non è passato troppo tempo, le strade sono rimaste intatte insieme a tutti i ricordi e io per fortuna non sono ancora totalmente indifferente – devo solo trovare la perfetta combinazione di elementi.

Posso risvegliare il mio coinvolgimento usando gli ingredienti giusti, che sono gli interessi (quelli che non invecchiano), le circostanze, gli stimoli . Così una proiezione sui Balcani, Venezia in ottobre e un’amica che mi capisce mi suggeriscono la ricetta di un antidoto contro il guscio di passività che invecchiando si inspessisce (per proteggermi, d’accordo, ma l’immaginazione si nutre di instabilità). E saprò sempre in futuro – spero – come schiudermi.

Venezia mi tieni legata, tornerò sempre (prometto), spero non d’estate.

Dov’è il Kindle?

10:40 Sto attraversando i boschi tra Cottbus e Dresda su un bus diretto a Praga. E sto impazzendo perché non so se ho lasciato il Kindle nello zaino o se l’ho in qualche modo perso.

Il mix ansia-distrazione è l’equivalente di giocare alla propria vita in modalità media – nulla di tragico, ma potrebbe essere molto più facile.

Però stranamente sembro aver accettato con relativa tranquillità l’idea che potrò verificare solo tra tre ore se è nello zaino o se è perduto per sempre. Prodigi della terapia.

11:45 Più o meno lo stesso tipo di pensieri invadenti mi ha un po’ perseguitato durante l’ultimo viaggio con C., avevo costantemente l’impressione di essermi scordato qualcosa, specialmente gli ultimi giorni. Poi invece non mi ero perso nulla.

Un altro pensiero invadente è stato quello della mia situazione abitativa prossima ventura. La mia coinquilina più anziana (J.) sembra sempre più instabile e violenta. Un litigone per futili motivi tra lei e S. è degenerato in urla da parte di J. che ricordava a S. (e a me) che lei “è la Hauptmieterin (affittuaria principale)” e che dunque quella è casa sua, non nostra. S. sta ora cercando casa, io penso la seguirò a breve, anche se non c’ho cazzi. Mi mancherai, S.

Il kindle era scivolato sotto il sedile.

12.25 Comunque ho tratto grande soddisfazione nel ritrovare gran parte dei luoghi che ho attraversato durante il mio Erasmus, sette anni fa. Soprattutto mi ha fatto piacere che C. li abbia apprezzati e abbia colto in parte i motivi del mio amore/ossessione per l’Irlanda e la sua storia. Che bello poter condividere le proprie fissazioni.

Ho avuto modo di ripensare alla persona che ero sette anni fa (e che scriveva del proprio Erasmus sulla precedente incarnazione di questo blog) e di quanto sia cambiato. Di una buona dose di sicurezza e autostima in più, della serenità che inizia a visitarmi più spesso, ma anche di tutto l’entusiasmo e la passione persi per strada. Dei capelli bianchi. Come per la nave di Teseo, fino a che punto io sono ancora io?

13.35 Il Kindle era sotto il sedile. Il mio peggiore incubo, mi ero convinto a restare calmo e rischiavo di perderlo. “Anche l’ansia può essere preziosa” (semicit.)

In ogni caso, sto rivivendo una strana esperienza che non capitava da anni, avere una persona che mi insegue. Che attivamente cerca la mia attenzione, un po’ come un bubi sovraeccitato. E io mi scopro un gatto schivo che si scosta e cerca di capire meglio, anche solo per dimostrare un po’ di responsabilità emozionale.

Torniamo al discorso per cui sono generalmente in difficoltà e restio ad accettare l’affetto altrui, per non parlare dei complimenti, che considero immotivati nel migliore dei casi, falsi nel peggiore. Welcome to my brain.

Capirò spero presto come/cosa provo e deciderò di conseguenza. E pensare che volevo prendermi una piccola pausa dall’universo e godermi una potenziale cotta per una persona per la quale esisto a settimane alterne – una meravigliosa sintesi tra le emozioni di un quindicenne e la maturità di un trentenne che ha smesso di sbroccare quando non riceve risposta.

E invece.

Nulla di nuovo, in perfetto stile irlandese, “When it rains, it pours/gets sunny again/starts hailing/now it’s raining again/where is all this wind coming from/looks like it’s back to sunny again/for feck’s sake it’s snowing now” (storia vera, Dublino 24/03/2015).

14:30 scendo dal bus, recupero lo zaino, ho tutto, compreso qualche capello bianco in più. Che bella vita.

Shout out per E. che si è dimostrata la stupenda persona che sospettavo fosse e ha coccolato me e C. a Dublino e Howth. Ti aspetto a Berlimo.

25.08.2022

Sette giorni

Sono al settimo giorno di clausura causa peste.
Sette giorni che non fumo. Che non bevo. Che non esco. Che non parlo faccia a faccia con un essere umano che non sia un membro della mia famiglia.
Che palle.

Secondo A. dovrei trasformare questo blog in un diario umoristico delle mie disavventure sentimentali. Io non ne sono troppo convinto. Una volta scritte, risulterebbero tristi e/o crudeli nei confronti delle interessate. Quando le racconto al massimo risulto triste io, sulla scia del pagliaccio di Böll cui mi ha una volta paragonato Mona (adorabile 23enne tedesca di cui manco seppi il cognome prima che svanisse); se le scrivo, si perdono tutti i toni, le smorfie, le braccia levate al cielo e l’enfasi esagerata che ti fa capire che, sì, io sono una povera vittima, ma non del tutto incolpevole. Cioè, “povero, che sfiga, ma forse un motivo c’è…” e a saperlo, mi sarei risolto un botto di grane nella vita. Ecco, se lo individuate, fatemi sapere.

C’è da dire che B., in visita a Berlino, qualche buon consiglio me lo ha dato, ma partiamo da presupposti diversi: lei c’ha una gemella, io ho chiesto un fratello senza mai pentirmene; lei ricerca(va) la solitudine, io la rifuggivo, fin da bambino. Semplicemente, la mia compagnia mi annoia. Non so come facciate voi, ma vi ringrazio e vi credo sulla parola.

Ecco, un annetto di psicoterapia serve anche a questo: a smetterla di darvi dei deficienti perché mi volete bene (per chi mi vuole bene). Ecco, io (non) valgo, ancora fin lì non ci siamo arrivati, però almeno ho smesso di credere che siate tutti stati presi da un attacco di demenza collettiva quando avete deciso di essermi amici e di restarmi accanto, non è un gigantesco patto suicida di masochismo collettivo, una sfida a chi resiste più a lungo in apnea dal mandarmi affanculo. Siete sinceri, probabilmente. La cosa mi terrorizza.

Un annetto di psicoterapia per scendere a patti che l’ansia ce l’ho e non me la levo. Per capire che forse qualche qualità ce l’ho. Per trovarmi moderatamente attraente accettabile. Che poi se iniziamo così dopo il mio ego va in modalità mongolfiera e chi lo riprende più.

Ma tanto c’è una sindrome dell’impostore grande come una casa a tenermi coi piedi per terra, causata dal mio passato “attivismo” e che mi fa sentire un grillo parlante, un blablabla, un rafaniello. Così, quando mi sento un figo, ripenso al fatto che l* compagn* si pigliano le botte e io ai cortei quasi manco più ci vado e vedi come torna l’umiltà.

Ormai fatico molto a parlare di politica e quando lo faccio mi sento un cacchio di liberal, poi J. parte coi discorsi sulla cancel culture e la vena magicamente si gonfia, lo sguardo si focalizza e mi faccio tutto rosso in volto. E urlo, oh, come urlo. Non è bello, ma mi si provoca, istiga, stuzzica. Certe volte pare che si diverta a farsi urlare addosso e lì si capisce che l’unica argomentazione contro il masochismo collettivo di cui sopra è il rasoio di Occam: non è semplicemente possibile che siate tutti così.

Questi pensieri in libertà, beninteso, non hanno lo scopo di farvi sospirare per me, di intenerirvi, nemmeno di innamorarvi. Mi svuoto la cabeza e se voi avete la sfiga di leggerli, peggio per voi. O meglio per voi, magari vi piacciono. O avete due minuti da perdere.

Il buon M. dall’alto del suo americano ottimismo mi ha già invitato un paio di volte a considerare la scrittura seriamente; lui ci si paga l’affitto. Bellissimo, ma non so più cosa dire. Le mie vicende sono poco interessanti, se non mi conoscete. La politica? Non riesco più a guardare al futuro senza una smorfia di cinismo e il passato è passato, è pornografia dei ricordi di epoche innocue perché mai vissute. Perché quasi tutti i protagonisti sono morti. E allora di che parliamo? E infatti non parlo di nulla. E parlo di sempre meno con sempre meno persone.

E. mi avrebbe tirato una sberla se mi avesse sentito parlare così, tra un gelato e l’altro. Lei ha molto apprezzato l’Italia e se l’è filata prima di prendersi la peste. Bravissima.

E in tutta questa enorme, gigantesca, primordiale afasia abilmente occultata da un’incessante logorrea, A. mi ha appena ricordato che forse dovrei aprire un canale YouTube invece di scrivere sul blog. E trasformarmi così nella Carrie teutonica di un Sex and the City in salsa berlinese.

I couldn’t help but wonder… (vedetevi il video qui, è uno spettacolo)

PS sì, ho usato il maschile sovraesteso. Sì, non è particolarmente inclusivo, ma è (attualmente) la soluzione più accessibile per evitare confusione e casini. Absit iniuria verbis.

Berlino, 14/11

Ieri mi sono fatto male al piede sinistro.
Una roba abbastanza da nulla, ma dolore sufficiente a rinchiudermi in casa.
Incredibile come dopo 5 mesi di lockdown duro nel 2020 mi sia scoperto di nuovo disabituato alla noia di giornate passate in solitaria.
Sarà che le coinquiline erano fuori, che ieri sera ero costretto a letto col piede alto e col ghiaccio, che non sono nemmeno riuscito a pensare di scendere le scale fino al tabaccaio sotto casa, che mi sono trovato costretto a ordinare d’asporto.
Che mi sia riscoperto dolorosamente umano.

Non nel senso che la scoperta di essere umano sia stata dolorosa, ma che quel piccolo costante dolore mi ha ricordato che in fondo siamo tutti terribilmente fragili.
E uscire da una delle settimane più lavorativamente intense della mia vita ha sicuramente giocato un ruolo importante.

Quindi oggi, privo di qualsiasi alternativa, ho fatto una cosa molto umana: ho chiesto aiuto. Mi sono sentito bene nel riceverlo. Questa è una cosa di cui spesso parlo con la p. da quando ho inizio il mio percorso verso maggio.
Non ricordo con precisione quando, il giorno o la settimana in cui ho iniziato, ma mi ricordo come stavo.

Ero uscito da un paio di mesi molto intensi, in cui mi ero ritrovato nuovamente a confrontarmi con le mie emozioni. Non sono bravo a farlo. Qualcosa dentro di me mi dissuade costantemente dall’introspezione, nella paura di scoprire di non essere la persona che credo di essere e che disperatamente cerco di essere. E se fossi solo uno stronzo? Spiegherebbe parecchie cose.
Probabilmente non è così. Non perché io sia l’opposto, ma perché di risposte così facili ne esistono poche e raramente riguardano sé stessi.

Giunge quindi come un fulmine a ciel sereno il commento di J., che commenta le mie ultime disavventure con un “suoni molto più sicuro di prima” e che loda la scelta difficile cui mi sono trovato di fronte a fine estate.

Non voglio entrare nei dettagli, ma ho messo io la parola fine, per davvero, a una situazione che non collimava con le mie necessità e le mie aspettative. Non sono un santo e la situazione non era orribile, ognuno ha sempre la propria porzione di colpa.

Quello che è davvero importante, è che in quest’occasione io abbia trovato la forza di dire no. Non dico quasi mai di no. Non mi riesce facile, non mi piace vedere il disappunto dipinto sul volto della persona cui rivolgo il mio rifiuto, ho anche una notevole paura di non compiere la scelta giusta e di pagarne le conseguenze.
Questa volta l’ho fatto. Non è stato piacevole, neppure per me.
Non ne vado fiero, non me ne vanto. Però noto questa piccola crescita che qualche anno fa sarebbe stata impensabile.

Nel frattempo qui è arrivato il freddo. Tocca ingegnarsi adesso. Bisogna sperare che ci sia spazio dentro i bar, coprirsi quando si esce, accendere i termosifoni – io l’ho acceso ieri per la prima volta solo per controbilanciare la mia completa immobilità. Appena riprenderò a muovermi lo rispegnerò, vorrei provare ad arrivare al 1 dicembre senza riaccenderli. Non è impossibile.

Una cosa l’ho notata. Negli anni mi sono rarefatto. Fatico a stabilire conversazioni valide se non in presenza di persone fidate, e alle volte manco con loro. Mi sento un po’ disconnesso. Ma magari su questo e su altre cose di cui ho discusso con R. ci tornerò un’altra volta.

E. ha lasciato Berlino e il buco si nota. Pure N. non c’è più e si nota pure quello. Però almeno ora vado ad arrampicare con D. e ce la spassiamo notevolmente. Prima o poi gli proporrò di fare serata, di uscire magari coi suoi amici. Sarebbe bello avere un altro amico uomo con cui poter parlare di certe cose, tipo la politica e la musica.

Fine del monologo.
Giusto un po’ di pensieri in libertà, per lasciare una traccia dei progressi fatti e delle risibili sventure che di tanto in tanto capitano.

Dal finestrino

Una foro del paesaggio rurale della Bassa Sassonia, in basso a sinistra un bosco
Niedersachsen, 13.11.2020

“Ho sempre amato viaggiare in treno
Ho persino dedicato poesie ai treni, 7-8 anni fa. Ai tempi era un’esperienza abituale, quella di farsi 5-6 ore di treno nel giro di pochi giorni. Ora ci sono meno abituato e riscopro quel sottile piacere dell’ascoltare il treno in corsa, del vedere il paesaggio fuori dal finestrino scorrere via veloce.
Geografia e meteorologia che si rincorrono e scompaiono. Più di tutto, il viaggio in treno è un viaggio nel tempo, è la più semplice macchina del tempo finora costruita.

Oggi, in treno, per la prima volta mi sono reso conto di essere in Germania.
È una strana sensazione, dettata dal vivere a Berlino. Berlino è diversa. Non si esce più di tanto, raramente si vede altro che la città, d’altronde non occorre: basta spostarsi di poco, da un quartiere all’altro, e già la geografia cambia, è persino possibile trovare boschi e laghi in città, tutto a portata di un biglietto AB.
D’altra parte, c’è vita oltre la Ringbahn?

Ed è così che, ammirando i campi infiniti di grano ed orzo della Bassa Sassonia, i boschi e i pascoli tagliati dalla ferrovia in Brandeburgo e in Assia, per la prima volta dal 2015 mi accorgo di essere in Germania.
Complice il libro che sto leggendo, il paesaggio rurale in direzione sud-ovest mi parla di contadini e rivolte, di guerre di religione, di sudore e fango nel freddo di albe invernali; una punta di desolazione nel guardare i paesini persi nelle campagne grigioverdi, nelle stradine alberate di pioppi, luoghi che appaiono disperatamente monotoni e piccoli e che tuttavia raccolgono più vita e calore di quanto si possa immaginare, seduti dietro a un finestrino.

E così mi riassale il pensiero: sono in Germania.
Ripenso all’ultima volta che ero stato in Germania e a quelle precedenti; mi scappa un sorriso al pensiero di stare vivendo nella capitale di uno stato cui quella città non appartiene o non sembra appartenere. L’ironia di una città in cui la lingua tedesca pare comunque un accidente, un caso, in cui mille idiomi si mescolano nelle strade, mentre qui gli alberi, il cielo, i prati, tutto è vergato in fitta Deutsche Sprache, se non addirittura in qualche oscuro dialetto locale, che evoca remoti tempi di fuochi e di riti magici sotto le querce, di una terra dura, selvaggia, forte e madre, che solo un delirio nazionalista poteva voler trasformare in “terra del padre”.
E questa, testarda, resiste, col suo grigio, col suo marrone, coi suoi malinconici colori autunnali a ricordarti che tu sei un ospite e che lei, invece, rimane.”

Ugo Tovil

(da qualche parte in treno tra Berlino e Francoforte)

Ricominciamo da qui

Non è molto. Ci vorrà parecchio tempo per recuperare tutto ciò che il vecchio blog è stato.

Ma ho una voglia matta di iniziare questa nuova cosa, di sperimentare, di lanciarmi!

E quindi eccoci.

Il primo di gennaio è tradizionalmente tempo di bilanci. Da buon bastian contrario, non ne farò. Vi beccate però alcuni update:

  1. Nel 2018 mi ero trasferito in Spagna; dal momento che ci stavo troppo bene, c’era un clima magnifico, alcol a basso prezzo, una buona qualità della vita (anche se tanta, tanta disoccupazione), avevo degli ottimi amici, una ragazza, ecc. ho avuto la brillante idea di trasferirmi a Berlino. Un colpo di genio, non c’è che dire.
  2. Sono diventato vagamente vegetariano. Mangio carne una volta ogni mai e questa è l’ultima volta che me ne sentirete parlare.
  3. Sto prendendo in considerazione di sfoltire la mia attività social – e di eliminare qualche account. Vi terrò aggiornati. Intanto mi trovate su Mastodon: @billypilgrim@mastodon.social
  4. Sto lavorando, sto magnando, sto andando a ballare. Ciao mamma, guarda come mi diverto.

Ecco, fatto. Finito il momento degli aggiornamenti. Nel prossimo futuro ho intenzione di recuperare tutti i post del vecchio blog e pubblicarli rozzamente in pdf – per poi farmi picchiare da Kitty Slasher – e caricarli su Mega in modo che ne possiate liberamente usufruire. Cartelle divise per annate, per autore…probabilmente per annata, ma anche questo è un work in progress. Questo ritorna ad essere un blog di cazzeggio, dal valore minimo, che si propone come minima velleità quella di rappresentare uno sfogo fuori dai social.

Vedete voi cosa farne.

Ugo Tovil